Che cos’è lo specialty coffee?
Lo specialty coffee, servito in bar e caffetterie specifiche, è un tipo di caffè speciale, pregiato, il cui processo di produzione è un lavoro collettivo.
Ultimamente si sente nominare ovunque, ma capire cosa significhi è un altro conto. Si definisce specialty coffee un caffè verde pregiato della specie Arabica, tostato in modo da esprimerne al meglio il profilo aromatico e gustativo ed estratto secondo standard di qualità precisi. Semplice, ma non semplicissimo. Questa definizione, se riletta attentamente, svela infatti i diversi step che un chicco di caffè deve superare (e con successo) per diventare specialty, ovvero speciale. Le tappe sono essenzialmente 4, e ognuna di queste punta i riflettori su una competenza, che deve essere di alto livello.
I 4 step dello specialty coffee
- Tutto ha inizio dal farmer, che semina una varietà di Arabica straordinaria, la coltiva con cura, la raccoglie e la lavora in modo appropriato. Per fare un esempio, pensate al viticoltore con il vino. Il coltivatore bada alla qualità ben più che alla quantità.
- Il secondo importante anello della catena è il buyer di caffè verde. Seguendo il metodo di degustazione del protocollo SCA, il cupping alla brasiliana, valuta la qualità del chicco, eventuali difetti e attribuisce un punteggio: se supera gli 80 punti su 100 è un caffè verde specialty. Il compito del buyer non finisce nella piantagione, continua nella torrefazione alla quale darà molte informazioni sulle unicità del caffè acquistato.
- Il terzo delicatissimo step vede protagonista il roaster. E qui tutto può succedere. Un verde specialty può diventare un caffè di altissimo livello, grazie a una tostatura rispettosa, o tramutarsi in un caffè carbonizzato, spigoloso, troppo amaro o addirittura pessimo. Tostare quindi è un’arte che sta nelle mani (e nell’attrezzatura) della torrefazione.
- Un’arte che però potrebbe andare sciupata dalla noncuranza del barista, l’ultimo attore a entrare in scena nella lunga gestazione di uno specialty coffee. Immaginiamo lo scenario: entriamo in un bar e troviamo (evviva!) un’attenta selezione di specialty. Ma la lancia vapore per il latte è sporca, così come il resto della postazione bar, e il caffè, ebbene sì, è già macinato e pronto per l’uso. Purtroppo è successo l’irreversibile: il bar ha comprato un caffè di altissimo livello, ben più costoso rispetto al classico da bar, ma il personale non formato l’ha trasformato in un caffè che sarà in fondo… mediocre. La professionalità del barista si misura in questi gesti e nella presentazione del prodotto al cliente.
La definizione di specialty coffee tuttavia non è nata con questa accezione di lavoro collettivo e di interesse per il mantenimento di determinati standard. Una prima bozza del concetto risale al 1974, un concetto ripreso, esteso e perfezionato quando Erna Knutsen sul Tea & Coffee Trade Journal catturò in queste due parole i furori di un settore che stava rinascendo. Fu un atto di estrema sintesi, frutto di una mente veloce, brillante. Erna la vedeva così: speciali microclimi geografici producono caffè con profili aromatici unici, che lei chiamava caffè speciali. La Specialty Coffee Association of America ha ripreso, esteso e perfezionato questo concetto inserendolo in un contesto, anche formativo, ben specifico. E che ha portato gli specialty coffee a essere oggi una delle realtà del food più interessanti.