Cucina egotica: l’ego sfrenato degli chef
Spopola la cucina egotica: al ristorante deve essere soddisfatto l’ego dello chef, non il gusto del cliente, dimenticato tra un tavolo e l’altro.
La prossima volta che metterete piede in un ristorante, nulla sarà come prima. Sì, perché lo chef non cucinerà degli ottimi piatti per rendervi felici, ma lo farà per compiacere se stesso. E poco importa se vi lancerete poi in commenti stizziti su TripAdvisor: del vostro giudizio, voi ultimo anello di una vera e propria catena artistica, non importerà poi molto. È quanto sostiene Alan Richman in un editoriale di GQ: è iniziata l’era della cosiddetta cucina egotonica, non vi è più scampo.
Cucina egotica: cos’è?
“Qualcosa ultimamente è andato storto nelle nostre cucine di ristorante. Improvvisamente, una nuova generazione di chef sembra aver deciso di dover cucinare non per il vostro piacere, ma per il proprio. In questa competitiva e maschilista scuola di cucina, i piatti serviti ai clienti potrebbero essere altamente creativi e intelligenti, ma troppo spesso sono più egoisti che ispirati. Il risultato? Ristoranti dove l’unica persona da soddisfare è lo chef, non voi”. il giornalista e food writer alan richman accusa gli chef su gq di cucinare solo per il proprio piacere personale Si apre così la disamina del giornalista e food writer Alan Richman, una prospettiva quasi da film horror: a cena si va con l’ansia, non si vorrà davvero innervosire il cuoco. Eppure è la tendenza che sta prendendo sempre più piede negli Stati Uniti, forse anche diretta conseguenza – e di questo i media hanno la loro bella responsabilità – di cuochi divinizzati, trattati alla stregua di star della musica pop e, ovviamente, diventati viziati e capricciosi. Eppure la cucina egotica, così chiamata dall’eterna lotta tra Eros e Thanatos, non è così distruttiva nei confronti del cliente come appare. Si tratta di un ribaltamento delle prospettive che può dare frutti interessanti: il cliente non deve più pretendere, ma lasciarsi guidare in un percorso gustativo che diventa marchio artistico dell’intero ristorante. E non c’è tempo per il “non mi piace”, perché ci si avvicina al cibo esattamente come si farebbe durante un viaggio, quando si assaggiano religiosamente le pietanze locali pur di non far brutta figura con gli autoctoni che ci stanno ospitando. “Gli chef mettono alla prova i confini culinari, si spingono oltre il bordo della scogliera e spesso cadono”: una sperimentazione portata all’estremo, con effetti a volte avvincenti, altri da nausea immediata. Come quella subita da Richman nel ristorante Aska, dove ha dovuto accettare suo malgrado quel che viene definito “un biscotto di Natale insanguinato”, una sorta di crocchetta immersa in sangue di maiale e probabilmente riempita di ogni spezia conosciuta e sconosciuta sul pianeta Terra.
Il predominio del maschio
Nel suo girovagare tra New York e la California, Richman si è imbattuto in diverse realtà egotiche. E, senza forse troppe sorprese, si tratta di ristoranti dove sarebbe predominante una cultura maschilista, dove il maschio – diverso dall’uomo – è in una posizione di rilievo rispetto alla donna. tra le varie critiche agli chef moderni, richman accusa i cuochi egotici persino di maschilismo “Non una sola volta ho visto una chef preparare del simile cibo. Gli uomini hanno sempre dominato le cucine dei ristoranti, ma non ricordo di aver mai incontrato una cucina così genere-specifica. Gli chef lavorano con disciplina, raramente ossessionati dai dubbi, apparentemente in possesso di una fiducia assoluta per non parlare dell’adorazione dei clienti. Nessuno osa dire loro cosa potrebbero star facendo di sbagliato. Il cibo è intellettuale, ma allo stesso tempo sconsiderato. Viaggia direttamente dalle mente al piatto, a ridosso della linea tra creatività e autoaccondiscendenza. I piatti peggiori hanno poco a che fare con le fondamenta della cucina così come la conosciamo, così come insegnata dai grandi chef o dalle accademie culinarie. Quando funziona, è perché i cuochi han ricevuto insegnamenti classici e i loro peggiori impulsi sono stati imbrigliati”. Una cultura talmente maschile che al cliente non è più concesso nemmeno il piacere di leggere un menu, il cibo viene semplicemente servito, e la critica non è ammessa. Una sorta di dittatura militare declinata alla tavola imbandita, dove forse un tocco femminile di certo non guasterebbe.
Cucina egotica: perché?
Ci si chiederà forse da dove arrivi questa tendenza, quando i cuochi si sono trasformati in divinità dotate di infallibilità temporale. E le origini, secondo Richman, sono praticamente ovunque: dalla gastronomia molecolare dello spagnolo Ferran Adrià ai mix asiatici di David Chang, dall’autocompiacimento del cuoco introdotto da René Redzepi a Copenhagen alla bistronomia parigina. Man mano che i piatti sono diventati più piccoli, più si è dato risalto all’arte della portata che alla sazietà del cliente, si è iniziato un percorso in cui lo chef è stato svincolato dal suo ruolo di cuoco, bensì assurto a pittore, a scultore, a simbolo pagano da idolatrare. “È un trend che appare solo all’inizio, alimentato da conferenze e simposi in tutto il mondo dove i più famosi chef si riuniscono per celebrarsi l’un l’altro e i loro personali universi di cibo”. Ma non è forse una tendenza destinata a durare, perché prima o poi il cliente si ribellerà. Così come sottolinea Mark Ladner del ristorante italiano Del Posto di New York, «va contro all’idea di ospitalità, questi chef stanno egoisticamente esprimendo loro stessi a discapito dei clienti».
Quindi cucina egotica, dice Richman. E voi? Pensate che siamo arrivati realmente a questa deriva?
- FONTE
- GQ
- IMMAGINE
- Firstwefeast
- Linkiesta