Home Bevande ​Cècubo: il vino degli antichi romani, tra passato e presente

​Cècubo: il vino degli antichi romani, tra passato e presente

di Marta Manzo 20 Settembre 2021 15:00

Il Cècubo è il vino che bevevano gli antichi romani. Ecco la storia di questo vino che da qualche anno è tornato a riempire i calici.

Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus. “Ora si deve festeggiare bevendo, ora si deve scuotere la terra danzando senza freni”, scriveva l’autore latino Orazio nelle sue Odi. “Prima d’ora per noi non era lecito dalle cantine avite tirare fuori il Cecubo pregiato, finché quella regina dissennata preparava rovine al Campidoglio e lutti e distruzioni al nostro impero”. Quella regina era Cleopatra. L’occasione lecita? La sua morte. Da festeggiare con un vino pregiato, il Cècubo, unico, antico, arrivato per fortuna fino a noi. Raro e costoso, il Cècubo era il vino degli antichi romani. Che veniva spesso tenuto nascosto sotto cento chiavi, come ricorda lo stesso Orazio, perché era un bene prezioso che nasceva in una zona ben precisa del Sud Pontino: Ager Caecubus era infatti il nome di un’ampia zona compresa tra Terracina e Formia, passando per Sperlonga, Fondi e Itri. 

Appio Claudio Cieco, i natali

A diffondere il vino Cècubo a Roma sembra sia stato Appio Claudio Cieco. Che nel 312 a.C, periodo di grande espansione per l’Impero Romano, diede inizio ai lavori di costruzione della via consolare che avrebbe collegato l’Urbe a Brindisi e che conosciamo ancora oggi: l’Appia. Rallentato nella costruzione della strada tra Fondi e Formia a causa della conformazione rocciosa delle colline, il censore romano, non vedente, venne a conoscenza delle eccellenze vinicole locali. Si innamorò, quindi del futuro Cècubo, dandogli il suo nome. Cècubo, caecus bibendumil cieco che beve”. E, per vicinanza, così fece con il territorio, l’Ager Caecubus, appunto. L’apprezzamento per questo vino fu tale che perfino Plinio il Vecchio lo mise al primo posto, nel suo Naturalis Historia, davanti al Falerno campano: Antea coecubum, postea falernum, scriveva, riferendosi a quello prodotto nell’antica Amyclae, città prossima a Fondi

L’uva serpe

Nella storica produzione del Cècubo il vitigno più antico è quello dell’uva serpe. Già nel I secolo d.C. Columella menziona l’esistenza di un’uva che dava un vino robusto, prodotta da un vitigno chiamato Dracontion, in greco serpente. Lo scrittore, pur scrivendo in latino, aveva fatto riferimento a un termine in lingua greca, quella originaria degli antichi abitanti di Amyclae. Proprio loro avevano piantato sui colli di Itri la vite dell’uva serpe, come retaggio delle proprie credenze religiose. 

L’abbuoto


A oggi, però, l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio (Arsial) indica l’Abbuoto come l’uva con cui si produceva il vino Cècubo. A bacca rossa, con grappolo di dimensioni medio-grandi e acino dalla buccia spessa e pruinosa, era diffuso tra Terracina e Itri e fino a Fiuggi, dove rimase in produzione anche grazie a Nerone, che lì fece costruire Lago Lungo. Sempre il primo vitigno di qualsiasi classificazione alfabetica (italiana e straniera), l’Abbuoto è stato iscritto al registro nazionale delle varietà di vite nel 1970 ed è inserito tra le varietà locali tutelate, perché presenta un rischio medio di erosione genetica, risultando ormai poco diffuso. L’etimologia del suo nome non è certa, ma sembra risalire sempre alla zona di origine, limitrofa al lago di San Puoto, dalla cui trasformazione del nome potrebbe venire proprio “abbuoto”.  

Il recupero

Negli ultimi 30 anni alcuni viticoltori hanno deciso di recuperare la gloriosa tradizione vitivinicola del vino Cècubo per riportarlo ai vecchi fasti. A partire da rarissime, quanto antiche, marze di vigneti di Abbuoto. È, per esempio, il caso dell’azienda Monti Cècubi, nata alla fine degli anni ’90 per volontà di un notaio, Antonio Schettino, che acquistò già nella decade precedente i terreni su una collina nel comune di Itri. Oggi, con la mano esperta dell’enologa Chiara Fabietti, l’azienda conta 150 ettari e  produce vino, ma anche olio. E si sono recuperati quei vitigni autoctoni locali – uva serpe, ma anche Vipera, Abbuoto, Vermentino – e quell’antico vino Cècubo, che viene prodotto con metodo biologico. Per un Abbuoto, quello del 2019, così pregiato da ottenere, al Vinitaly di quest’anno, il premio 5StarWines con una votazione 91/100