Rece Rock: Porco Rosso pub a Colleferro
Alex Giuliani ha provato per noi Il Porco Rosso: il risto-pub che a pochi km da Roma propone birre di qualità e cibi audaci.
Quelli che mi frequentano e conoscono la mia fede politica, ironicamente nascosta dentro un fisico adinolfiano, staranno sicuramente fraintendendo. No, Il Porco Rosso non sono io, bensì un risto-pub che si trova a una quarantina di chilometri da Roma, nella ridente Colleferro. Oddio, ridente forse no, considerando che la Valle del Sacco è stata per lungo tempo una delle aree più inquinate d’Italia ed era famosa per essere sede della centenaria e mastodontica Italcementi, oltre che di aziende chimiche, belliche e di smaltimento rifiuti. Fino a qualche anno fa, se non volevi sputare vernice giallo canarino 417 e azzurro cobalto 313 come il Gandi in La Patata Bollente, dovevi sperare che gli ingredienti della cena non fossero chilometro zero. I tempi però sono cambiati, e menomale, perché io ci tengo alla salute, ho ripetuto tra me e me mentre spegnevo la mia sigaretta senza filtro all’ingresso del locale.
Il Porco Rosso esiste da circa nove anni ma recentemente ha subito un drastico restyling sia nell’arredamento sia nel menu, che adesso ha una proposta gastronomica più matura e attenta ai prodotti del territorio. La sala si presenta accogliente, con divani chesterfield, quadri classici alle pareti, luci calde e un caminetto decorativo che, dopo la quinta birra, potrebbe anche sembrare vero. E infatti, dopo aver passato in rassegna i dieci spillatori di birre artigianali disposti sul bel bancone a L e aver bevuto delle ottime Seta Special (blanche al bergamotto) e Session Neipa del birrificio Rurale, ho chiesto di poterci cuocere due caldarroste. È bizzarra la genesi del nome che, a dispetto delle apparenze, non prende spunto dal film d’animazione di Hayao Miyazaki. Il padrone di casa, il giovane e simpatico imprenditore Gianmarco Camilli, spiega probabilmente per la seicentesima volta come né lui e né il resto dello staff avessero mai visto il film. Quando dovevano decidere, erano in realtà indecisi tra i nomi Porco Rosso e Porco Volante. Cercando su Google per verificare se esistesse già un posto che si chiamasse così, scoprirono il celebre cartone animato. Fin qui nulla di strano, se non che Gianmarco quella stessa notte tornò a casa e, accendendo la tv, vide che stavano trasmettendo proprio Porco Rosso e così prese la sua decisione definitiva. Bisogna sempre dar retta a certi segni del destino, come feci io il giorno che decisi di iniziare a correre nel parco ma improvvisamente piovve per settantadue ore consecutive, neanche vivessi a Bergen.
Leggo il menu con la stessa esaltazione con cui sfogliavo Lando, il fumetto erotico in voga in tutte le caserme d’Italia tra gli anni ’70 e ’80 e con la stessa indecisione di un elettore davanti alla scheda quando deve scegliere tra il voto utile e il disegnino di un fallo. Quando arrivano i due taglieri, grandi come se fossero stati ricavati dalla sezione di un baobab secolare, strabuzzo gli occhi come Marty Feldman. Il primo è un classico di affettati e salumi prodotti dal prosciuttificio Erzinio, nella vicina Guarcino, tra i quali spiccano la pancetta tesa piccante, il guanciale affumicato, il capocollo e una spettacolare coppa all’arancia. Il secondo è invece un attentato alle mie rigide convinzioni talebane dato che si tratta di formaggi e affettati vegani prodotti dall’azienda Fermaggi di Cave, con anacardi e mandorle fermentati. Nonostante la mia reticenza iniziale ho davvero apprezzato i formaggi, in particolare quello affumicato e quello alle erbe mediterranee. Squisiti. Il meno convincente è stato il presiutto di barbabietola, dal mesto color rosa cipria, che ho piegato con cura e utilizzato come fazzoletto da taschino. E, visto l’andazzo, dallo stesso taschino ho poi tirato fuori una bustina di Geffer Granulato Effervescente.
Subito dopo, per la gioia degli amanti dei telefilm anni ’80 come me, arrivano i Magnum P.I. ovvero porchetta sfilacciata con un cuore di scamorza, impanata, fritta e servita su uno stecco insieme alla salsa BBQ. Li ho adorati e credo di averne sottratti di nascosto anche agli altri commensali con la stessa abilità con cui Fantozzi rubava le polpette di Bavaria al Professor Birkermaier. Stessa sorte per le Call my babe lollipop, le polpette di pulled pork con panatura alla paprika servite con maionese al guanciale, andate a ruba come un portafoglio a Via dei Tribunali. Più canoniche invece le Strisce di porco (strisce di arista marinate in salsa di soia e zenzero con panatura alla paprika e servite con maionese al pomodoro bruciato) e L’anello mancante (una porzione di anelli di cipolla di Tropea fritti, grossi come gli orecchini di Jennifer Lopez nel video di Jenny from the block nel 2002).
La Ciambella di Carpineto all’anice è un graditissimo classico di queste zone, anche se per mangiarla servono i denti d’acciaio di Squalo, il nemico di James Bond in La spia che mi amava. Mio nonno, nativo della vicina Montelanico, le comprava sempre ma non avendo neanche un dente le usava per giocare al lancio degli anelli al parco comunale. La nota dolente arriva invece col Modern mEzzarella supplì alla marinara con mozzarella vegana, duro e un po’ colloso, sicuramente più adatto ad una sassaiola nella Prima Intifada a Gaza. A riportarmi il buon umore, arrivano le buonissime Scottish ribs (un’intera baffa di costine di maiale cotte 24 ore con rub affumicato e vaporizzate al momento con un Talisker 10 anni) larghe e lunghe come le strisce pedonali di Piazza Risorgimento.
Dopo questo piatto inizio a sentirmi affaticato e sudato come Eliud Kipchoge al quarantunesimo chilometro di maratona e, avendo ordinato anche il panino, barcollo verso l’uscita come un cavalluccio a molla di un parco giochi per prendere una boccata d’aria fresca. Poi, però, ricordo di essere a due passi dal maledetto cementificio e allora preferisco accomodarmi al bancone per prendere una più salutare boccata di birra fresca (la Schlenkerla, una buonissima tedesca ambrata affumicata prodotta da Heller Brauerei). Arriva il panino, ironicamente chiamato Leggerissimo, ovvero un iglù bifamiliare con hamburger di manzo selezione Dario Cecchini, broccoletti ripassati, primo sale fritto panato, guanciale croccante e uovo all’occhio di bue. È alto come un panettone stradale di calcestruzzo e per riuscire a morderlo servirebbe la bocca di Steven Tyler degli Aerosmith. Ho usato le posate e tutto il mio coraggio per finirlo ma ne è valsa davvero la pena.
Alla fine di questo abbondante e soddisfacente pasto, respiro come Darth Vader con un sacchetto di nylon infilato sul casco. Per mangiare anche il dolce avrei bisogno di più stomaci di uno yak tibetano, quindi passo ai saluti. Se volessi smaltire tutto quello che ho ingerito, dovrei percorrere a piedi i 40 chilometri che mi separano da casa ma siccome mi sono trovato benissimo al Porco Rosso ho chiesto a Gianmarco di poter dormire su quel magnifico divano chesterfield. Sì, quello davanti al caminetto decorativo che però, dopo la quinta birra, appare dannatamente vero.