Anguria e cocomero: c’è differenza?
Cocomero e anguria sono la stessa cosa? Voi come chiamate uno dei frutti più amati durante la stagione estiva?
C’è un milanese che pranza con un romano e gli dice “Ci facciamo una fetta di anguria?”. Ok, d’accordo. Questa scena è surreale anche solo a pensarla. Forse i romani hanno capito dove voglio andare a parare. L’anguria non esiste, nella capitale c’è solo il cocomero. Anche perché in fondo sono due frutti diversi. Oppure no? Fermi, calmi. Chiariamo la questione una volta per tutte. Avete ragione tutti: l‘anguria è il cocomero. E viceversa. Frutto commestibile della pianta del Cucumis citrullus, originaria dell’Africa tropicale, il cocomero (o anguria) appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee, la stessa di zucchine, zucche, cetrioli e meloni. Da un punto di vista botanico si chiama cocomero, per cui diciamo che questo è il termine con cui è comunemente conosciuto. Perlomeno in centro Italia.
Se da Roma ci si mette in viaggio verso il Nord, infatti, superata la Toscana e arrivati in Emilia-Romagna, il cocomero diventa l’anguria, non c’è niente da fare. A Reggio Emilia c’è addirittura l’anguria reggiana IGP che però, proprio nel vocabolario reggiano-italiano datato 1832, viene chiamata cucùmra o còcomra. Vattelappesca. La questione del nome rimane un mero fatto di coordinate latitudine-longitudine. Dovuto, come sempre, alla storia e alle influenze nei vari luoghi. Pare che a introdurre il termine anguria, da angòurion, cioè cetriolo, siano stati i veneziani. Lo dice anche l’Accademia della Crusca, chiamata a più riprese a fare chiarezza sulla storia del vegetale. E passi che il cetriolo, no, volevo dire il cocomero, diventi cetriolo in alcune zone della Lombardia e Piemonte. E che in Lombardia succeda anche che il cetriolo diventi cocomero. Mentre in Liguria il cocomero diventi pateca, alla portoghese, ma pure sandìa, alla spagnola. Come sa sindria sarda.
AIl punto è che lo chiamino cetriolo anche in alcune regioni del Sud. Ma che qui, in realtà, è molto più comune trovarlo come melone, tanto per confondere ulteriormente le cose. A Napoli. A Palermo, dove si fa il gelo di mellone. A Bari, dove le melune “sò rruss, sò bbelle“. Melone d’acqua, rigorosamente, per distinguerlo da quello di pane, il classico melone giallo cantalupo. D’altra parte non si chiama forse watermelon anche in inglese? Ok, non divaghiamo. Torniamo in Italia. Calabria, Reggio Calabria. Zipangulu, pizzitangulu. Ma cos?! Prende forse il nome dal Cipango o Zipangu e cioè il Giappone, grande coltivatore di cocomeri? Forse, ma non è detto. Provincia di Catanzaro: Zuparacu, zio parroco. Possibile che faccia riferimento ai semini, così simili ai bottoni della talare? Oppure che sia la forma tonda e il colore rosso del volto rubizzo di un immaginario don di paese? Chi lo sa.
Tutto considerato, forse dovremmo limitarci a chiamarlo cocomero. La Crusca dice che è questa la forma panitaliana. E anche il dizionario Hoepli è d’accordo. Se riprendiamo la definizione botanica ne usciamo puliti. Belli coordinati. D’altra parte un frutto così antico, che sembra si coltivasse già nell’epoca degli antichi egizi, che lo seppellivano nelle tombe dei faraoni come mezzo di sostentamento nell’aldilà. Di cui si parlava, pare, anche nella Bibbia, quando gli ebrei assetati nel deserto del Sinai rimpiangevano il succoso e rinfrescante frutto mangiato in Egitto. Un frutto così, insomma, merita un riconoscimento comune. Vabbè, basta. Vado a mangiare una fetta di anguria. No, di cocomero.