Gli anni d’oro della ristorazione romana
Un viaggio attraverso i meandri della buona ristorazione romana, dagli anni 90 ad oggi, tra meteore e capisaldi.
Gennaio 1990: giovane (nemmeno tanto in realtà) alla ricerca d’occupazione, fuggivo dall’allora grigia ed ostile Catania per approdare nella Capitale. Era appena caduto il muro di Berlino e stava per crollare, in Italia, quello pericolante degli anni’ 80 anche se nessuno ancora pareva accorgersene. Sbarcavo a Roma anche con una grande sete (e fame) di conoscenze enogastronomiche, che la Sicilia allora era quasi un deserto e qualche sporadico viaggio per lo stivale mi aveva lasciato ricco di curiosità e dubbi. Trovai un fiorire di aperture, alcune già consolidate e note, come il Pianeta Terra e il Girone VI, altre, appena sorte, che avrebbero vissuto più o meno brevemente, alcune veramente in maniera effimera, altre trasformandosi o trasferendosi: Tentativo, Cul de Sac (piazza di Pasquino 73), Il Bacaro (via degli Spagnoli 27), Ecce Bombo in via di Tor Millina (chissà se anche nei nomi era segnato un vago destino), tutti sparsi nell’aria tra Piazza Navona e Trastevere.
Nel 1994 era tutto ampiamente finito: Tangentopoli e dintorni avevano fatto abbassare le saracinesche (anche di molte altre attività) e lunga sarebbe stata la traversata nel deserto della ristorazione capitolina. Ma come si mangiava, mi chiederete voi, in questi ristoranti? Francesismi, spunti creativi, il supporto ideale della nouvelle cuisine, soufflé, sformati, foie gras e astice. Velleità e gambe deboli a sostenerle (sia tecniche, che finanziarie). Al Pianeta Terra feci due cene memorabili; il giovane Troiani al Convivio, allora a via dell’Orso, aveva uno sprint che dopo il trasferimento a via dei Soldati non ha più ritrovato; al Bacaro, neo-bistrot ante litteram, ho vissuto serate di grande goduria, anche enoica, perché si poteva bere alla grande a prezzi commoventi.
Naturalmente questi erano le occasioni da una volta al mese, ma normalmente si andava per tipicità e tradizione: da quella in versione più lussuosa di Checchino (via di Monte Testaccio 30), passando per Paris a Trastevere (piazza di San Calisto 7/a), fino alle mete quotidiane (almeno le mie): Tonino (via del Governo Vecchio 18), Da Giovanni (via della Lungara 41), Lilli (via di Tor di Nona 23). Naturalmente questa non è, né vuole essere, un’escursione esaustiva sulla ristorazione romana dell’epoca, ma è soltanto ciò che frequentavo.
Poi, dicevo, la traversata nel deserto fino ai primi anni del nuovo secolo con qualche lampo: l’arrivo de La Pergola di Heinz Beck (via Alberto Cadlolo 101), l’apertura di Giuda Ballerino al Tuscolano (largo Appio Claudio 346), Arcangelo Dandini e gli anni ruggenti del Simposio (piazza Cavour 16) con il giovane Gabriele Bonci ai fornelli. E bisogna arrivare al 2003, quando ai Banchi Vecchi, Anthony Genovese (reduce dalla bruciante avventura del Roma, che poteva essere un posto epocale e chiuse in appena due mesi) con la socia pasticcera Marion Litchle, apre Il Pagliaccio: un ristorante epocale a Roma, che sia pur tra mille difficoltà, critiche e di pubblico, è riuscito ad imporre un modello, al di fuori di quello alberghiero, di cucina contemporanea, moderna di cui questa città aveva ed ha tremendamente bisogno. Glass Hostaria (vicolo dè Cinque 58), Metamorfosi ai Parioli e quel modello intermedio che è Pipero al Rex (via Torino 149) devono molto a quell’apertura.
Resta invece ancora in gran parte scoperto il versante della tradizione: sono troppo solitari Armando al Pantheon, Da Cesare, l’Osteria di Monteverde (via Pietro Cartoni 163), Flavio al Velavevodetto. E certo la multifunzionalità gastronomica del capostipite Roscioli, di Romeo e di Settembrini sono importanti, ma ancora poco per una grande capitale europea. Ma avremo tempo di discuterne.
- IMMAGINE
- Il Convivio Troiani
- The Rome Digest
- Il Pagliaccio
- Andrea Sponzilli