Cervelli in fuga: il vino naturale di Manuel Di Vecchi
Un giovane ricercatore italiano diventa viticoltore e per realizzare i suoi sogni si trova costretto a lasciare l’Italia: ecco la storia
Da studioso di agronomia, a produttore di vini in una delle zone più impervie ma spettacolari del sud della Francia. Per alcuni forse è un passaggio ardito, per Manuel Di Vecchi è stato quasi uno step inevitabile: dopo aver mollato la carriera universitaria, si è lanciato in una nuova avventura – umana e professionale, come la definisce lui – e a Banyuls-sur-Mer, nel cuore dei Pirenei Orientali, producendo vini biologici e biodinamici. Con un metodo “radicale” che guarda al passato, bandendo l’utilizzo di concimi chimici e prevedendo la pigiatura dell’uva fatta con i piedi da un gruppo di donne.
Manuel, da studioso di agronomia a produttore di vini. Com’è accaduto?
Ho sempre avuto una grande passione per l’agricoltura e studiando all’Università mi sono appassionato ancora di più di ampelografia, ovvero lo studio della vite e così ho deciso di trasferirmi a Montpellier dove mi sono specializzato presso il dipartimento di genetica della vite dell’Inra. Lì ho fatto degli studi di genetica, analizzando il dna di una pianta per studiarne le varietà.
Quand’è che ti sei innamorato di Banyuls-sur-Mer?
Nel mio percorso di studi ho fatto un censimento della vite selvatica sia in Italia che in Francia, e sono capitato quasi per caso a Banyuls: il primo impatto è stato fatale perché questo terroir è straordinario, sospeso tra il mare e la montagna.
Un coup de foudre definitivo, tanto che hai lasciato l’Italia dove insegnavi all’università.
Ho cambiato vita, anche a causa delle tante delusioni. A Verona c’erano pochi finanziamenti per le ricerche e più di tutto mi ha colpito il rapporto con gli studenti: durante l’ultimo anno avevamo quarantadue alunni e nemmeno uno è voluto partire per fare la vendemmia o uno stage in azienda. Lì lo sconforto ha preso il sopravvento.
E hai deciso di cambiare vita. In che modo?
Mi sono ricordato di quel territorio e di Banyuls-sur-Mer. Nei cambiamenti radicali si fanno scelte con pochi compromessi: così ho deciso di trasferirmi nella Catalogna francese e in questo posto dove si arriva con due treni al giorno, attraverso una sola strada e dove non ci sono nemmeno i trattori.
Il tuo obiettivo era iniziare a produrre vino fatto a mano
In passato avevo già pensato alla Calabria per un progetto estremo e senza compromessi, ma la burocrazia italiana e problemi sociali mi hanno spinto verso la Francia. Scherzando con alcuni amici di Perpignan, ho chiesto loro se conoscessero una vigna e me l’hanno trovata. Qui lo Stato mi ha aiutato a comprare la vigna, a un prezzo abbordabile, e ho avuto delle agevolazioni per l’acquisto degli attrezzi: le amministrazioni comunali e la Chambre de l’agriculture sostengono in maniera forte i vignaioli e, tanto per fare un esempio, paghiamo 25 euro l’anno per la consulenza di un agronomo.
Così hai comprato le vigne nel 2006 e iniziato a vinificare nel 2008, puntando sui vini biologici e biodinamici. Che tipologia di vini produci?
In primo luogo l’Aoc Banyuls, un vino dolce e fortificato, come il porto. Per la fermentazione non aggiungo lieviti né solforosa, ma solo una percentuale di alcool per la fortificazione: sostanzialmente è un vino distillato, naturalmente dolce e la fortificazione serve per conservare gli zuccheri residui dell’uva.
Dallo scorso anno hai virato anche su due vini secchi da tavola. Di che si tratta?
Un po’ spinto dalla clientela e un po’ dagli amici, produco due vini rossi. Il primo l’ho chiamato Ellittico, ispirandomi a una canzone di Jannacci, ed è prodotto con assemblaggio di grenache e carignan, molto diffusi nel sud della Francia. Il secondo l’ho chiamato Ullamp, dal nome del mulo che lavora il mio terreno, fatto con vitigno mourvedre, un’uva a bacca nera che produce vini di buona struttura, dai profumi intensi.
Torniamo per un attimo in vigna. Dicevi prima che non ci sono trattori, vista le pendenze piuttosto impervie. Come riesci a tenere in ordine i vigneti?
Utilizzando il chadic, una zappa catalana adatta a pendenze, poi utilizzo la falce e non il decespugliatore. Ovviamente non concimo ne fertilizzo e l’ammendamento avviene attraverso il pascolo nelle vigne. Quanto alla fertilizzazione, impiego solo preparazioni biodinamiche che aiutano la vita, senza alcun aiuto chimico. Abbiamo reintrodotto l’utilizzo dei muli per lavorare il terreno, rimotivando alcuni artigiani a fare utensili che non si facevano quasi più e ho comprato venticinque pecore riportando qui anche i pastori.
Anche per la cantina hai fatto una scelta radicale, dunque non c’è traccia di botti in inox.
In cantina non c’è inox e non si sono nemmeno diraspatrici, torchio e pressa. L’uva viene pigiata con i piedi ma solo da donne, che la pestano in due-tre ore. La mia è una scelta fatta in maniera pensata: le donne si appassionano più degli uomini, che invece si annoiano velocemente, e poi è una pigiatura più leggera.
A quel punto si passa all’invecchiamento in barrique. Quanto dura nel caso dell’Aoc Banyuls?
La vinificazione all’aria estrae molto dall’uva, dunque il vino è quasi secco e ha bisogno di invecchiare almeno un anno e mezzo per arrotondarsi e trovare la sua armonia. Utilizzo delle barrique di una ventina d’anni e lo faccio invecchiare circa due anni.
Quante bottiglie commercializzi?
Mille bottiglie l’anno, tutte soffiate a mano da un verrier di Saint-André, un paese qui vicino. Ho cominciato con bottiglie ha 750 e sotto richiesta di clienti e amici ho iniziato a produrre anche una bottiglia più piccola da 40 cl, meno di mezzo litro.
Anche le confezioni sono molto particolari
I cartoni sono dipinti e per proteggere i vini metto delle erbacce della vigna falciata. Il mio sogno ora è quello di prendere il patentino da fiaccheraio, partire a Parigi e fare le consegne in calesse. Però facendo tutto da solo è molto complicato.
Nel cassetto hai un altro progetto molto curioso. Di che si tratta?
È un’idea estemporanea, quasi una provocazione, ovvero l’imbottigliamento in Tetrapak: è un gioco, uno scherzo, ma metterò in vendita un vino in soli 300 Tetrapak. Lo chiamerò Giuda perché in questo caso per raffreddare i mosti mi dovrò appoggiare a degli amici che utilizzano delle botti in inox. Ma sarà sempre senza solforosa.
A luglio hai poi aperto con un gruppo di amici e colleghi Les 9 Caves. Di che si tratta?
È un progetto folle. Abbiamo recuperato il vecchio edificio della cooperativa di Banyuls-sur-Mer, una struttura di 1500 metri quadri: ora ci sono nove cantine, tre mini appartamenti sopra le cantine, un’enoteca con i vini che ci piacciono, una scena per gli spettacoli all’aperto e uno spazio degustazione dove serviamo piatti freddi. Tutti i vignaioli propongono vini biologici, io solo l’unico produttore biodinamico. A Natale uscirà il nostro primo libro con le foto scattate qui a Banyuls da Luca Del Pia: vorremmo creare una piccola casa editrice che si occupi di progetti biologici, coinvolgendo anche disegnatori famosi.
Ultima domanda: ma in Italia saresti riuscito a realizzare tutto questo?
Qui si lamentano dell’Amministrazione pubblica ma siamo su un piano completamente diverso. Forse ci sarei riuscito anche in Italia, ma con il triplo della fatica. In ogni caso non tornerei mai indietro: sto vivendo un’avventura professionale e umana davvero incredibile.