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Chef stranieri in Italia: Wicky Priyan

di Alessandra Gesuelli 27 Settembre 2019 12:01

Wicky Priyan ha eletto Milano a suo regno gastronomico, ma lo chef dello Sri Lanka si definisce cittadino del mondo e ama la cucina giapponese.

Una cucina che non ha muri e che unisce ingredienti italiani a una tecnica giapponese precisa e affilata come la lama di un samurai. La cucina di Wicky Priyan nel suo Wicky’s Wicuisine su corso Italia 6, chef di cuore che con determinazione ha creato la sua strada a due passi dal Duomo di Milano non ha bisogno di una etichetta. “Non sento una precisa appartenenza, sono figlio del mondo” dice lo chef nato in Sri Lanka e che ha visitato l’Italia per la prima volta 26 anni fa e da 15 anni è a Milano dove ha aperto nel 2011 il suo primo ristorante. Per tanti anni ha vissuto in Giappone dove torna spesso e che conosce molto bene. E ancora adesso prova una grande emozione a parlare del suo maestro di sushi, Kikuchi Kan di Tokyo, che tempo fa venne a Milano con i figli per una cena a 4 mani. Condividere con lui il lavoro sul prenotatissimo bancone (in tutto ha 40 coperti nel suo locale), lo ha commosso come fosse ancora un giovane apprendista: “Ho un profondo rispetto per il mio maestro, non smetterò mai”. Uno chef di cuore che con determinazione ha creato la sua strada e ha un bel successo di pubblico. E nei prossimi mesi ripartono le cene a 4 mani. Dopo Antonio Guida e Pino Cuttaia, ci sarà Andrea Berton.

Come definiresti la tua cucina in Italia?
La mia cucina oggi è tecnica giapponese con ingredienti italiani e mediterranei. Non ci sono muri nella mia cucina. Non c’è bisogno di un’etichetta. La tecnica per me è molto importante, la precisione nell’esecuzione. Sono venuto in Italia la prima volta 26 anni fa, ma è da 15 anni che vivo in questo paese. Tra le prime suggestioni ci fu quella di abbinare l’olio d’oliva con la cucina giapponese, poi è arrivato l’aceto di vino bianco. Ho visto che funzionava e sono andato avanti su quella strada. Cerco gli ingredienti che penso funzionino di più, quelli stagionali, come la cipolla siciliana o l’aglio rosa. Viaggio tanto. Lo scorso anno sono stato in Sicilia. Quest’anno Napoli e Amalfi, poi in Piemonte e in autunno andrò in Veneto. Mi piacciono tanto le vostre verdure, i crostacei e il pesce.

Che significa per te identità in cucina?
Io non sento un’appartenenza, mi sento un figlio del mondo. Parte del mio sangue è spagnolo, sono nato in Sri Lanka, mia figlia è giapponese come mia moglie, ma anche italiana. Per me la cucina nasce dalle esperienze, nasce da un’intelligenza del cuore. Non potrei mai cucinare se non fossi felice. Tanti anni fa, quando ho iniziato, è stata una sfida: da non giapponese fare una grande cucina giapponese e il miglior sushi. Nei miei 30 anni in Giappone, tanti dal grande maestro Kan, ho imparato in profondità la cultura giapponese che riguarda il rispetto, la disciplina, l’onestà e la cura dei dettagli. Ho una pergamena sul mio bancone proprio con questi kanji. Sul mio tavolo di lavoro, incontro tante persone diverse, da ogni parte del mondo. La mia clientela è maturata, ora conosce bene il Giappone e lo ritrova da me. Vengono anche tanti giapponesi. Mi dicono di sentire Kyoto nella mia cucina. Ed è così, ho cambiato gli ingredienti ma la base della mia cucina è quella, la kaiseki. È molto spirituale, come un tempio, un viaggio di degustazione personale.

Quale è il piatto che in questo momento rappresenta di più questa unione?
Direi la Burrata, che è una burrata pugliese di Martina Franca con mazzancolle, capperi di Pantelleria, granelle e foglie di cucunci, mais, crema di yuzumiso e gelatina di melanzana. Una mia personale versione di parmigiana di melanzane. Chi viene da me può ordinare alla carta oppure scegliere tra uno dei vari menu Omakase. Chi si siede al bancone, invece, ha un menu a sorpresa dedicato, si tratta di un vero Chef’s table. Siamo in 3 qui al bancone e 5 in cucina. Amo tanto interpretare gli ingredienti del Sud. Lavorare il pesce azzurro del Mediterraneo come le sardine. Nel mio menu lascio anche i miei classici. Alcuni piatti hanno 20 anni. Non li ho cambiati molto, solo piccoli aggiustamenti con gli ingredienti. Me lo chiedono i miei clienti italiani, e da ogni parte del mondo: come potrei toglierli?