Chi ha paura della caccia? Intervista a Michele Milani
Cacciare e cucinare la selvaggina sono pratiche antiche quanto la storia dell’uomo. Ne parliamo con Michele Milani, autore di Storie di caccia e cucina.
Nei secoli passati si cacciava per fame o per difesa: oggi si fa (o si dovrebbe fare solo) per mantenere l’equilibrio fra fauna animale e attività umane, come la stessa agricoltura. I cacciatori, da predatori in cima alla catena alimentare regolamentati da rigide leggi nazionali, mantengono a un livello ritenuto ottimale la popolazione di cinghiali, caprioli, cervi e daini. E la carne, sempre controllata da un veterinario e con ottimi livelli nutrizionali, può essere utilizzata per preparare cene fra amici o pranzi di famiglia.
Michele Milani è un pubblicitario appassionato di cibo e di selvaggina, autore del libro Storie di caccia e cucina, edizioni MiCom: cacciatore e cuoco per passione, ha composto cinquantadue ricette, di selvaggina ma anche di piante commestibili selvatiche, precedute da racconti fra i boschi e i prati e seguite da indicazioni nutrizionali e consigli per la cottura. Agrodolce gli ha fatto qualche domanda, per capire come si vive ancora oggi la passione per la caccia e la cucina che a essa segue.
È nata prima la passione per la caccia o quella per la cucina?
“Sono nate contemporaneamente, quando da piccolo vedevo mio nonno andare a caccia e mia nonna cucinare la selvaggina, sempre di domenica. Sono due attività fatte per andare di pari passo: è un legame a doppio filo, che porta al massimo rispetto per l’animale quando l’hai preso. L’uomo è nato cacciatore per sostenersi e di conseguenza deve cercare di ottenere il meglio da quello che riesce a cacciare”.
Si crea un rapporto particolare fra il cacciatore e l’animale che si trova a cacciare?
“Si crea un rapporto particolare tra il cacciatore e il territorio. L’atto dello sparo, infatti, è solo l’ultimo di una lunga serie di azioni. Il cacciatore si trova a gestire una popolazione di animali: il territorio può sostenerne solo un certo numero, che viene stabilito ogni anno tramite un censimento per sesso e classe di età. Quando il numero della popolazione supera quello ottimale, il cacciatore viene autorizzato a prelevare gli esemplari in più, senza causare né problemi di salute né di crescita della popolazione. Questo discorso però, in Italia, vale solo per gli ungulati, che sono i mammiferi maggiori e più importanti: il capriolo, il cinghiale, il daino e il cervo. In teoria si potrebbe fare anche per la selvaggina stanziale minore, tipo fagiano, starna e pernice, ma al momento in Italia ciò non avviene: e il prelievo in questi casi non è selettivo, ma si basa su una media per ogni cacciatore e ambito territoriale di caccia. A Piacenza si parla di quattro lepri, cinque pernici… e la caccia alla starna è chiusa, perché l’animale è in fase di controllo e ripopolamento.”
Ci sono differenze importanti fra la cucina di caccia e la cucina “normale”?
“Nel libro ci sono 52 ricette, che corrispondono alle domeniche dell’anno. Ma in realtà, oggi che ci sono adeguate tecniche di conservazione e non servono più marinature lunghissime, la selvaggina si può usare anche negli altri giorni della settimana, quando il pranzo consente un piatto veloce… ad esempio una trita di capriolo saltata in padella, oppure una semplice bistecca di cervo o delle braciole di cinghiale. La selvaggina è stupefacente fine a se stessa, non è necessario arricchirla con mille sapori e ricette complicate… si prepara, semplicemente, come qualunque tipo di carne. Con però delle caratteristiche di sapore estremamente importanti: ad esempio, la carne salata di selvaggina è straordinaria, e si può aromatizzare con le erbe tipiche del territorio in cui vive l’animale. Bisogna valorizzare la carne per quello che può dare. E questo comporta la conoscenza, il rispetto del territorio, e, ovviamente, il rischio della sperimentazione in cucina”.
Ma una persona qualunque, non un cacciatore, che vive magari in città, dove potrebbe acquistare la carne di selvaggina?
“Ecco, la reperibilità è purtroppo un problema. La possibilità di acquistare selvaggina, in Emilia Romagna, oggi è data solamente dai centri di conferimento e lavorazione: centri che consentono il commercio regolare di carne cacciata e controllata. Sarebbe buona norma che ogni vallata, ogni territorio si dotasse di un centro di conferimento della selvaggina, con un veterinario per fare gli esami e un macellaio che prepari i tagli di carne a seconda delle esigenze di ciascuno. D’altronde, è inutile continuare a prendere un animale che è composto da cosce, spalle, lombate, filetti e costate per ridurlo a spezzatino: ci sono delle lombate, ci si fanno delle costolette impanate, c’è la coscia e ci si fa il prosciutto… si possono utilizzare le stesse lavorazioni della carne d’allevamento. I centri di conferimento stanno comparendo poco a poco anche in altre regioni: c’è qualcosa in Piemonte, in Toscana, stanno iniziando a parlarne nelle Marche, e c’è qualcosa di più tradizionalmente legato al territorio in Alto Adige… pian piano si sta iniziando ad allestirli”.