Buono, sì. Ma com’è fatto il kebab?
Resta il “padre” dello street food, ma ancora il kebab divide nettamente gli animi. Cosa contiene veramente e quali sono (se ci sono) i possibili pericoli da scansare?
Le sue origini risalgono al Medioevo e all’Impero ottomano; secondo la leggenda, i soldati persiani usavano cuocere la carne di agnello tagliata a pezzi e infilzata dalle spade, per poi mangiarla (spesso) per strada. Nel corso dei secoli, il kebab si è trasformato più volte e anche radicalmente. La versione che oggi tutti conosciamo ha preso forma poco più di mezzo secolo fa, grazie alla creatività di due immigrati turchi in Germania. Diventando la massima esponente dello street food e conquistando anche tutta l’Europa, Italia compresa. A proposito di conoscere: sappiamo davvero com’è fatto il kebab? Perché sulla farcitura del panino kebab possiamo ritenerci tutti abbastanza ferrati, ma siamo mai realmente arrivati al cuore della questione? Facciamolo adesso.
Cosa c’è dentro il kebab
Premessa: esistono tanti tipi di kebab. Qui ci riferiamo al più diffuso, ovvero il döner kebab. Quello che ormai si trova facilmente lungo tutto lo Stivale, presso quei piccoli locali in cui operano i kebabbari. Chiedetevi se siete sicuri di voler sapere cosa c’è veramente dentro il kebab. Com’è fatto. Se la risposta è sì, procediamo.
Nel corso degli ultimi tempi sono state fatte diverse analisi, che in sostanza hanno dato il medesimo esito. Molti kebabbari giurano di utilizzare solo carne di pollo e/o vitello, ma non sempre è vero. Capita che si rilevino mix di carni diverse; magari il pollo e il vitello ci sono davvero, tuttavia si aggiungono la carne di pecora e quella di maiale. E fin qui, tutto sommato, nulla di scandaloso. Il problema è che, per fortuna non frequentemente, qualcuno utilizza scarti. Quindi anche ossa, unghie, cuore, lingua, occhi, orecchie degli animali. Dovrebbe esserci sempre una parola d’ordine: tracciabilità.
Il kebab di qualità
Però non dobbiamo fare di tutta l’erba un fascio, assolutamente. Perché esiste anche il kebab di qualità. Quello commercializzato sul territorio nazionale, per esempio, quasi sempre proviene in parte da stabilimenti italiani e in parte da stabilimenti tedeschi. Si tratta comunque di fabbriche riconosciute a livello comunitario dal punto di vista igienico sanitario. La composizione è certificata dalle autorità sanitarie per mezzo un’etichetta che certifica la presenza di una determinata tipologia di carne piuttosto che di un’altra.
Per quanto riguarda il kebab take away, invece, ciclicamente le Asp fanno controlli. Gli ispettori verificano la tracciabilità (appunto) e la gestione pre e post cottura della carne, nonché le condizioni igieniche dei locali. Fanno anche analisi basate sui parametri microbiologici di sicurezza alimentare e prettamente igienici. Qualche volta i risultati lasciano a desiderare, ma nel complesso possiamo stare tranquilli.
Resta il fatto, però, che il kebab contiene moltissimo sale e anche abbondanti dosi di grassi saturi. Spesso, ahinoi, vengono addirittura superate le dosi giornaliere consigliate. Tutto questo significa pure che stiamo parlando di un alimento iper calorico. Un panino kebab pesa mediamente 300/400 grammi e apporta all’incirca 1000 calorie.
Come viene fatto il kebab
Dunque, il concetto ormai è chiaro: il kebab di qualità è composto da pollo, tacchino, volendo anche agnello, bovino, montone. Ma si tratta sempre di tagli nobili. Per il resto: com’è fatto, “tecnicamente”? La carne viene tagliata a fette e man mano infilzata su uno spiedo verticale, fino a formare numerosi strati. Questo insieme viene poi sagomato con un coltello, in modo da ottenere una sorta di cilindro. E l’asse del girarrosto comincia a girare, dando il via al processo di cottura. Döner kebab, del resto, significa proprio kebab che gira.
Le parti più grasse della carne, a causa del calore, in breve tempo si sciolgono. Rendendo il kebab ancora più gustoso e al contempo evitando che risulti troppo asciutto. Doveroso ribadirlo: nel caso dei prodotti pessimi, invece, si utilizza carne “riciclata” (scarti compresi) e poi si trita il tutto. Non va bene per niente.