Perché dovreste ascoltare DOI, il podcast a “denominazione di origine inventata”
Insieme all’autore Daniele Soffiati in DOI lo storico Alberto Grandi smonta i falsi miti creati intorno ai prodotti tipici e alla tradizione culinaria italiana. Che non sarebbe quasi mai quello che crediamo. Lo abbiamo intervistato
La carbonara? Americana. Il pomodoro di Pachino? Creato in laboratorio in Israele. La tipica, tradizionale, regionale cucina italiana? Esiste soltanto da una cinquantina d’anni. Incredibile, vero?Eppure lo dice la storia. E lo fa in un podcast. Ecco perché dovreste ascoltare DOI: perché “DOI – Denominazione di origine inventata” è il progetto portato avanti da Alberto Grandi, storico e professore di Storia del cibo e dell’alimentazione all’Università di Parma (oltre che giudice della Tiramisù World Cup di Treviso) insieme a Daniele Soffiati, autore di libri dedicati a cinema e tv.
Che cos’è DOI
Pensato nel 2021 e lanciato l’anno successivo – le puntate della primissima stagione sono uscite sulle principali piattaforme intorno a febbraio 2022, ora siamo alla terza – DOI sfata, episodio dopo episodio, tutti quei miti legati alle nostre specialità culinarie e alle loro antiche origini. E ne ricostruisce le radici storiche grazie ai frutti di anni di ricerca del professor Grandi. È la naturale evoluzione di libri precedenti che ha scritto in materia, soprattutto quello omonimo uscito nel 2018.
Ciò che viene fuori, ascolto dopo ascolto, è che nonostante i nostri prodotti tipici rimangano veramente molto buoni, la narrazione che li accompagna non sarebbe altro che una enorme bugia, che abbiamo cominciato a raccontarci più o meno a partire dagli anni ’70.
Apriti cielo. Poiché la specialità di Grandi sembra essere fare affermazioni divisive su prodotti tipici del “made in Italy”, non soltanto si è inimicato una gran parte dei connazionali ed esperti del settore – comprese associazioni di categoria e vertici di vari ministeri – ma ha addirittura subìto aggressioni.
Lo abbiamo chiamato.
Professore, da quando ha iniziato ha subìto aggressioni anche violente.
Eh, va bene ragionare di ricaduta economica, ma reazioni di questo genere investono proprio la dimensione identitaria. Posto che non dico mai che la nostra cucina non è buona – perché non lo penso – reagire in maniera violenta e aggressiva significa che sto toccando un’identità.
Se l’uomo è ciò che mangia, l’italiano è ciò che dice di aver sempre mangiato: e quindi ne vai a toccare le radici, a toccare ciò che a monte. A molti dei risentiti ho chiesto ‘ma che cosa vi sto togliendo?’ e loro mi hanno risposto che sono nemico dell’Italia, che sono servo degli americani. Non basta dire che la cucina italiana è buona, bisogna dire che è la migliore ed è sempre stata la migliore.
Certo, anche l’intervista sul Financial Times non ha aiutato…
Un anno prima ne avevo rilasciata una molto simile uscita sul Corriere della Sera e allora nessuno si era risentito.
Qual è l’urgenza? Quand’è che ha cominciato a fare ricerche?
In realtà tutto parte da un convegno a Parma nel 2009, intitolato The Taste of Typicality. In quella sede avevo preparato l’introduzione e in quell’introduzione dicevo già alcune cose, e cioè che alla fine la tipicità diventa un ingrediente in più per far gustare meglio un prodotto. Nel caso non ci fosse, semplicemente l’aggiungeva. Era un lavoro molto embrionale.
Dopodiché mi sono dato l’incarico di salvare l’Italia da se stessa. Se queste storie che abbiamo inventato servono a vendere un Parmigiano in più, un prosciutto in più, per me ben venga. L’Italia, però, crede di poter vivere di caciotta di Pienza, e il compito che mi sono prefissato è dire ‘guardate che non si vive queste sciocchezze’.
Ma perché ce la raccontiamo?
Ci sono secondo me due motivi. Uno è che c’è un’attività economica consistente intorno a questi prodotti, che come strumento di marketing usa una storia più o meno inventata. E su questa attività, come ho detto, non ho niente in contrario. L’altro è che l’Italia pensa che sia davvero così, crede davvero di essere il Paese dove si mangia meglio dove si è sempre mangiato meglio, crede che questa cosa sia l’elemento più importante della sua economia (e non è così), ed è per questo che abbiamo sempre creduto a queste balle.
Secondo me, per fortuna, un po’ di dubbi stanno serpeggiando. Non voglio assolutamente prendermi meriti, anzi, a volte la vivo anche con senso di colpa, ma comincia a esserci la consapevolezza che non sia andata sempre così, e che la nostra cucina è, sì, buona, ma non è la migliore del mondo.
Come si costruisce una puntata di DOI?
Non c’è una regola fissa. Con Daniele (Soffiati, ndr) facciamo una sorta di indice e scaletta, non della singola puntata, ma dei contenuti che vorremmo preparare in ogni stagione (circa 12 blocchi). Dopodiché questo indice viene sempre sconvolto per le varie disponibilità degli ospiti. Se le puntate sono di carattere storico, più legate quindi ai miei temi, normalmente Daniele mi fa avere le domande e io rispondo.
Nei casi di altre, invece, legate più all’attualità e in cui trattiamo temi più delicati, per una questione di correttezza “politica” la scaletta è più precisa, con punti che vanno detti e chiariti: in questo caso, infatti, è più frequente che venga fuori una parola sbagliata o un termine non corretto. E in quel caso registriamo di nuovo.
Come scegliete gli ospiti?
Non c’è una regola neanche qui. A volte si è andati sulla conoscenza personale, per esempio Dario Bressanini, che è un amico, era a Mantova, l’ho chiamato, gli ho chiesto una mezz’ora del suo tempo ed è venuto. Montanari uguale, si è prestato. Sulle puntate più legate all’attualità, invece, per esempio per la puntata su veganismo e sostenibilità Alice Pomiato l’ha scelta Daniele, notando i video e la sua presenza sui social.
Oltre al grande seguito, ovviamente la scelta è legata a quello che gli ospiti hanno da dire. Nel caso di Alice, noi avevamo sempre un po’ snobbato l’argomento e ci è sembrato giusto costruire la puntata con punto di vista diverso dal nostro. E guardiamo anche un po’ della leggerezza, rispetto ai temi: non prendiamo l’esperto solo in quanto tale, ma anche nello stile scanzonato che ci assomiglia. Certo, in alcune puntate non riusciamo a tenerlo e questo dipende dal tema: perché se è serio va affrontato con serietà, per gettare una luce.
Cosa offre in più il podcast in più rispetto al libro?
Devo fare una premessa: fino a quando è uscito il libro, la mia produzione scientifica era strutturata perché nessuno la leggesse. Le pubblicazioni di questo tipo sono proprio fatte perché nessuno le legga. Quando, invece, ho iniziato a scrivere, ho dovuto cambiare modo di ragionare, di approcciare. Da quel momento, per me il tema della divulgazione è diventato prevalente rispetto alla mia attività scientifica – che non ho comunque smesso di fare – però c’è tutta questa parte che è prevalente.
In questa logica, il podcast secondo me è uno strumento straordinario che permette di arrivare a persone potenzialmente interessate che però troverebbero più ostico affrontare un libro. È chiaro che quel che dici non è quel che scrivi, c’è sempre uno scarto, però è davvero entusiasmante – ed è la cosa più esaltante di questa esperienza – scoprire persone che mi dicono “tu sei quello di DOI”. Quando Daniele a fine 2021 mi ha detto ‘avresti voglia di fare un podcast’ io ho risposto: “Sì, certamente. Cos’è un podcast?”
Qual è l’esempio più emblematico delle nostre invenzioni in cucina?
Continuo a pensare che il più plateale sia la pizza napoletana. Per il semplice motivo che gli stessi napoletani sono perfettamente consapevoli che questo prodotto sia cambiato, in meglio, in tanti modi diversi e che senza la migrazione in America non sarebbe mai migliorato. E mi stupisco quando autori e giornalisti si arrabbiano: l’impossibilità di dire questa cosa mi stupisce.
Trasecolo, non riesco a farmene una ragione: le testimonianze di cosa era prima (della prima guerra mondiale) sono tutte diverse, ma tutte concordano che era “una grandissima schifezza, da poveracci”. Lo dicono gli stessi napoletani! Matilde Serao scriveva ne “Il ventre di Napoli “nessuno avrà coraggio di mangiare una cosa simile“, la pietra tombale di ogni polemica, che mostra chiaramente come sia poi completamente cambiata.
Mi dica la verità: le è capitato di predicare bene e razzolare male e difendere la nostra cucina all’estero?
Assolutamente sì! Lo racconto sempre: a Minneapolis mi è successo assolutamente questo. Volevo proprio ordinare un tiramisù, la cameriera mi aveva caldamente sconsigliato di prenderlo, ma io avevo insistito. Dopodiché era veramente una schifezza e lì ho dovuto fare tutto il panegirico spiegando la ricetta, il ruolo che il tiramisù ha nella nostra identità e cultura, eccetera.
Mi è successo anche con il Parmigiano, discussioni a non finire, perché il Parmesan americano è oggettivamente una schifezza. E quindi, niente, c’ero io, in America, a difendere il Parmigiano Reggiano. Spero che almeno questo il Consorzio un giorno me lo riconosca!