Da Eataly agli Eatalians: com’è nato il marchio del food italiano nel mondo
Eataly, il colosso enogastronomico di Oscar Farinetti, non deve il nome geniale del suo marchio all’imprenditore piemontese: ecco di chi è l’idea.
“Il nome di Eataly nasce dalla fusione di due parole: EAT, cioè ‘mangiare’ in inglese, e ITALY, Italia”: così c’è scritto sul sito della catena di negozi creata da Oscar Farinetti e inaugurata nell’ormai lontano 2007 con l’apertura del primo indirizzo a Torino. Quello che non c’è scritto – pure se a colmare la lacuna basta dare un’occhiata a Wikipedia, dove qualcuno ha provveduto a inserire pure i riferimenti dell’atto notarile della cessione del marchio – a coniare il celebre e riuscito marchio eataly non è stato oscar farinetti è che a coniare Eataly, quel breve e riuscitissimo neologismo che racchiude efficacemente la mission di proporre (e vendere) “il mangiare italiano, quel modo tipicamente nostrano di stare a tavola”, è stato Celestino Ciocca. Se il suo nome non vi dice molto – meno di quello Farinetti, molto probabilmente – non è un caso: Celestino Ciocca infatti non è un imprenditore e nemmeno un produttore, ma un consulente aziendale. Solitamente, come pure in questo caso, chi fa questo lavoro ci mette il lavoro ma non il nome, tanto meno la faccia: un’opera maieutica che sta nel far esprimere nel migliore dei modi le idee altrui, facendole funzionare anche in termini di business oltre che di marketing. Molisano di Monteroduni, Ciocca ha lavorato per alcune grandi società internazionali prima di mettersi in proprio, contribuendo con il suo know-how nel campo della Total Brand Experience (che potremmo tradurre, in maniera un po’ semplicistica, nel riuscire a dare a marchi commerciali quel quid in più che li rende unici) a far essere ancora più apprezzati e amati alcuni dei marchi più noti del Food&Wine italiano – perdonate i tanti anglicismi ma di parla di marketing, dopotutto – da Antinori a Illy.
È stato lui, nel 2000, a farsi venire in mente il famoso Eataly. Non per un cliente, in quel caso, ma per un suo progetto: ambizioso e forse visionario, necessitava però di qualcuno per farlo diventare realtà. Pochi anni dopo, sembra che questo qualcuno possa essere proprio Oscar Farinetti: dopo un periodo di reciproca conoscenza, nel 2004 Ciocca accetta di cedere all’imprenditore piemontese il marchio, e contribuisce inizialmente a costruire la strategia che avrebbe poi portato Eataly a diventare il simbolo del mangiare italiano in tutto il mondo, parlando allo stesso tempo la lingua del commercio e quella della pancia. Insomma, un brand di grande successo seppure non esente da critiche, il cui merito va senz’altro in primis alle grandi doti da imprenditore di Farinetti; ma anche molto lontano da quello che inizialmente aveva in mente il consulente molisano che, infatti, a un certo punto lascia il marchio nato da un’illuminazione avuta nella nebbiosa campagna inglese al suo destino, senza però abbandonare l’idea per cui era nato.
Di questo, e di molto altro, Ciocca parla nel libro Eataly mi piace, ma preferisco gli Eatalians, pubblicato da Lupetti; un libro agile e piacevole da leggere, che evita tanto i toni auto-celebrativi quanto quelli livorosi e riesce pure a essere divertente grazie all’ironia di chi non esita a definirsinel libro si svelano vizi e virtù dell'imprenditoria italiana legata all'universo enogastronomico “un ingenuo con idee brillanti o un fesso geniale”. Senza scadere nel gossip magnereccio, racconta i retroscena (o per lo meno alcuni) della genesi del più grande progetto di retail del made in Italy, alternandoli a interessanti lezioni di marketing che si intrecciano con le storie più affascinanti del settore, di cui l’autore è stato direttamente o indirettamente un testimone silenzioso: dalla nascita de La Gola – da cui sarebbero poi scaturite le avventure fondamentali di SlowFood e Gambero Rosso – all’incontro con il marchese Antinori e Giacomo Tachis, definito “un poetico guru dell’intangibile”, un bell’omaggio al principe degli enologi italiani; dalle origini contadine di un brand come La Molisana fino alla passione senza limiti di Ernesto Illy per il caffè. Senza mai assumere toni didattici e pedanti, il libro delinea virtù e vizi – i secondi, purtroppo, numerosi – dell’imprenditoria italiana enogastronomica: da un lato orgoglio, passione e determinazione, dall’altro individualismo, diffidenza e presunzione, i maggiori ostacoli alla vera affermazione dell’Italian food nel mondo come sistema e non come singoli esempi di eccellenza. Noi abbiamo fatto alcune domande a Celestino Ciocca, in occasione della presentazione del libro al Circolo Tennis Eur a Roma, dove avvenne tra l’altro il primo incontro in carne e ossa tra lui e Farinetti. Vi anticipiamo però che per avere alcune delle risposte, dovrete comprare il libro o attendere che il suo progetto originale trovi gli interlocutori giusti per farlo diventare realtà.
Celestino, come mai hai deciso di scrivere questo libro?
Forse perché certe storie, prima o poi, le devi raccontare per forza: ancora oggi, dopo 10 anni, capita che magari qualcuno mi parli di Eataly per spiegarmi di cosa si tratta, senza sapere che in parte quella è anche la mia storia. Ma ho deciso di scrivere il libro soprattutto per riscoprire le ragioni autentiche del progetto paese di cui parlo nel libro, che avevo deciso appunto di chiamare Eataly e per riproporre questo progetto all’attenzione della business community dell’Italian Food.
Ci puoi dire qualcosa di più di questo progetto? A che punto è?
Il nome, e alcune buone idee di marketing, ovviamente sono ormai andati, ma rimangono le idee strategiche e i motivi di fondo del mio progetto, vale a dire riuscire a realizzare le potenzialità inespresse dell’Italian food. È un progetto più collettivo, tanto è vero che il nuovo nome – Eatalians – è anche più azzeccato del primo. Di più, però, non posso dire visto che ho ancora la convinzione di poterlo realizzare.
Una domanda al consulente, più che allo scrittore: qual è la tua visione attuale del comparto?
L’Italian Food è una cosa seria che merita progetti seri; è il secondo settore manifatturiero italiano, e vale circa 132 miliardi di euro, ma esistono a mio avviso enormi opportunità inespresse. Basta un dato: negli ultimi 10 anni l’export è cresciuto dell’80 per cento e se uno lo vede come dato a sé sembrerebbe un buon risultato, ma in realtà è molto deludente, perché nello stesso periodo (2004-2014) l’Italian sounding è cresciuto molto di più, addirittura del 180 per cento! La realtà è purtroppo che oggi nel mondo solo 1 prodotto su 8 è autentico italiano. L’industria alimentare italiana sta perdendo un’opportunità enorme, visto che c’è una domanda superiore all’offerta; sarebbe ora di correre ai ripari.
E il tuo progetto va in quella direzione?
Sì, esattamente, ed è proprio qui che si differenzia dal progetto Eataly così come lo ha sviluppato – seppur con grande successo – Farinetti: il suo è un progetto imprenditoriale individuale, che non ha mai pensato di risolvere i problemi comuni del settore. Il mio invece presuppone la nascita di un soggetto economico totalmente nuovo e innovativo che possa aiutare le aziende coinvolte a superare alcuni limiti strutturali. Sia chiaro però: sto parlando di un progetto imprenditoriale con un suo equilibrio economico, un progetto che prevede anche la presenza di soggetti pubblici indispensabili per rappresentare gli interessi collettivi, ma niente assistenzialismo!
Perché, secondo te, oggi il tuo nome non è associato a quello di Eataly se non da pochi addetti ai lavori? Forse qualcuno ritiene che non giovi alla grandeur di Eataly il fatto che ad inventare questo bel marchio non sia stato Farinetti in persona o qualcuno del suo cerchio magico.
Marchio a parte, io in quanto consulente, mi ero occupato soprattutto di come offrire ai clienti, al di là di banali prodotti eccellenti, esperienze che raccontassero l’Italian food e l’unicità di Eataly, e mi sembra che ci siamo riusciti. Per quanto riguarda invece la mission di Eataly, con Farinetti, semplicemente, avevamo alla fine visioni troppo diverse; lui è un imprenditore che ha saputo realizzare la sua idea per il suo tornaconto. Il mio progetto invece – in cui l’aspetto commerciale è un mezzo più che un fine – pone l’enfasi sui protagonisti dell’Italian food e ambisce alla realizzazione di qualcosa che serva soprattutto a loro.
Pensi che artigianato e industria alimentare siano due universi paralleli destinati a non incontrarsi mai, o potrebbero coesistere nel tuo progetto?
È uno dei punti chiave della mia idea; si tratta appunto di tribù spesso separate ma devono assolutamente trovare uno spazio comune in cui ci sia posto e ruolo per entrambi, in cui l’uno fornisca endorsement all’altro. Non conta tanto essere piccoli o grandi, ma la prospettiva da cui si guarda.
Insomma, cosa puoi dirci sul progetto Eatalians oltre a quello che racconti nel libro?
Si tratta di un open project, aperto cioè al contributo strategico ed imprenditoriale di chi condivide questa vision. Si tratta di un soggetto nuovo che nasce per l’iniziativa di aziende private, e non di un’iniziativa gestita da associazioni esistenti, pubbliche o private. Un progetto paese in cui cibo e turismo siano legati a stretto giro come facce di una stessa medaglia, vale a dire il territorio. Si tratta di due settori dove l’Italia può vantare straordinari elementi di vantaggio comparato che devono essere valorizzati a pieno, ma le soluzioni operative dipenderanno anche dai soggetti coinvolti. Questa volta io ci metto l’idea, e cerco chi voglia crederci fino in fondo per realizzarla.
Da consulente, oggi che consiglio daresti a Farinetti per rafforzare il brand Eataly?
Io che do consigli a Farinetti? È già successo, tanto tempo fa, e i consigli che voleva ascoltare li ha già ascoltati a suo tempo, magari qualcuno dopo qualche anno. Quelli che non voleva ascoltare allora, non li ascolterebbe nemmeno adesso, anche perché i clienti non ascoltano mai i consigli per i quali non pagano. Per farti contenta ci provo a dare un consiglio… tanto con tutti soldi che Farinetti mi ha già dato! L’identità competitiva di Eataly avrebbe in effetti bisogno di qualche sostanzioso cambiamento, ma è troppo integrata a quella del suo fondatore perché qualcosa possa cambiare finché Farinetti imperat; ma forse Oscar non ha bisogno nemmeno di questo consiglio e ci ha pensato da solo, è sempre un passo avanti; a meno che, cosa che non credo, Guerra sia lì solo per massimizzare il valore dell’annunciata quotazione in borsa.
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