L’arte del riutilizzo: le frittata di pasta
Figlia della cucina degli avanzi, la frittata di pasta racconta dell’ingegno dei cuochi napoletani: ecco come prepararla.
Figlia della cucina degli avanzi e del connubio tra spaghetti e lagane, la frittata di pasta è il modo gentile e creativo degli artisti cuochi napoletani per ingentilire la pasta ripassata. È un incrocio tra il riutilizzo della pasta da due soldi, quella che nei giorni di festa si poteva comprare per i vicoli di Napoli, e delle lagane romane. La si vede nelle eleganti tavole signorili, ma anche nella piccola e parca classe borghese: è la democratizzazione popolare, il connubio di un piatto antichissimo e della vita di strada napoletana.
In passato, con l’avvento delle culture Franche imperiali e dei principi nordici, la pasta è messa in secondo piano, e le si preferisce la carne rossa, il maiale e la caccia. fanno eccezione i napoletani, legati alla pasta da una necessità, quasi una religione Sopravvive in Italia una produzione di pasta fresca casalinga, soprattutto in Emilia, principalmente con uovo e grano tenero. Di contro la Schola salernitana la destina ai malati che “debbono sanarsi cocendola nel brodo o con l’aggiunta dell’ovo“. Il Savonarola descriva la pasta di farina come la più indigesta, preferendone la più sana farina fermentata, cioè il pane. Fanno eccezione i napoletani: nel 1508 il neo-insidiato Vicere di Napoli Juan II de Ribagorza a causa di una rivolta del pane, emana un editto che vieta, in caso di aumento del prezzo della farina per guerra, carestia o cattivo raccolto, di preparare taralli, sosamelli, zeppole, maccarune, trii e vermicelli, eccetto che per necessità di malati. Inutile dire che fu rimpatriato subito dopo. Nello stesso secolo furono emanati altri 22 bandi per regolamentare produzione e vendita di maccheroni e vermicelli. Nonostante la crescita della percentuale di napoletani che preferiva mangiare i maccheroni, essi erano ancora conosciuti come mangia foglie (la fonte è Emilio Sereni, 1958).
La pasta costa poco e riempie, il prezzo del grano duro nelle due Sicilie è calmierato. Ferdinando I di Borbone la mangia a tavola, con le mani. Non da meno suo nipote Ferdinando II: la sua tavola reale ne è spesso imbandita con maccheroni, pizza, caponata. Nel luglio del 1842, Ferdinando II si reca a Gragnano accompagnato dalla regina e relativa prole (13 figli), in visita agli opifici di paste lunghe. Riceve in dono cento tomoli di maccheroni. Per la squisitezza del prodotto, concede ai pastai il privilegio di fornitori di corte, dando vita alla produzione dei maccheroni del Re. Ed è soprattutto il popolino che gode di passione e fortuna: Matilde Serao descrive il pasto da un soldo con la pizza, mentre quello da due soldi col maccherone fumante. La maschera di Pulcinella, creata da Fiorillo nel 1632, è associata ai maccheroni. Non cambiano le cose con l’unità d’Italia e il successivo inscatolamento della Cirio a San Giovanni a Teduccio. Agli angoli delle strade le grosse caldaie dei maccheronari sono affiancate da un piatto di terraglia contenente piramidi di formaggio grattugiato solcato da righe nere di pepe, unico condimento fino all’affermazione del pomodoro.
Pur se considerati cibo prettamente napoletano, i maccheroni non ebbero difficoltà a conquistare le tavole di tutta Italia e furono inclusi in ricettari di tutte le altre regioni, sia in preparazioni classiche che locali. nella frittata di pasta è ammessa qualche variazione, si può arricchire con ciò che piace e funziona Pare chiaro come la vita prevalentemente di strada, dei bassi spagnuoli, dell’aristocrazia napoletana che volentieri si mischia al popolino, diano un lustro e una dignità superiore alla pasta, essendo questa più una religione per i lazzari, i miserabili, e i signorotti squattrinati. Impossibile quindi avanzarla, ed è qui che l’ingegno napoletano si mette all’opera per creare una delizia come le frittata di pasta. La ricetta: sbattete un uovo per ogni etto di pasta avanzata, e aggiungetevi formaggio grattugiato, pepe nero e una punta di sale. In un tegame alto coprite il fondo con strutto oppure olio di oliva, versate la pasta e le uova sbattute a coprire. Tenete la padella leggermente inclinata e fate scivolare l’impasto roteandolo per 3 minuti. Una volta che il fondo è compatto, rivoltatelo velocemente, magari aiutandovi con un coperchio; cuocete per altri 2 minuti. È ammessa qualsiasi variazione: la potete fare al forno, con un fondo di pangrattato o pasta sfoglia; se sono maccheroncini li potete servire in piccoli coccetti e aggiungervi rigaglie, provola o mozzarella, ingentilirla e arricchirla con quello che più vi piace e ci sta bene.
A Napoli la potete mangiare in diversi locali di via Roma, davanti al vecchio Mattino; nella Pignasecca o nei vicoli della Luciana o di Chiaia si trovano spesso rosticcerie o bar che la preparano principalmente con i vermicelli o con i maccheroncini. Mangiata calda è un dono della cultura partenopea, e dal primo morso, guardando il mare, potreste guardando il mare sentirvi come Re Ferdinando II.
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