I racconti del Professore: Trattoria da Lucio a Rimini
Siamo stati da Trattoria da Lucio, il ristorante di Rimini famoso per utilizzare la tecnica della frollatura del pesce: ecco come è andata.
Non starò qui a tediarvi sulla tecnica di frollatura del pesce, anche se è il principale motivo per il quale, sbarcati a Rimini, ci si siede al tavolo di Jacopo Ticchi alla Trattoria da Lucio (che sarebbe il figlio di 5 anni, una felice dedica). Non lo faccio perché se ne è parlato ampiamente e ne hanno scritto persone ben più competenti in merito: sappiate solo che qui siamo in uno dei posti dove tutto è iniziato in Italia, dopo un lungo apprendistato australiano da Josh Nyland, che della tecnica è un il totem inattaccabile nel contemporaneo. Il pesce di pezzature medio-grandi viene conservato a temperature e umidità controllate, si asciuga dei liquidi in eccesso, sviluppando una scomposizione proteica che amplifica le percezioni gustative. Potete ammirare i pesci nel frigorifero a vetri che troneggia – e continuerà a farlo – in una sala che a fine giugno è stata smontata e rimontata in quattro giorni (ve ne parleremo nella prossima visita). E proprio della sala, dopo il necessario prologo, che bisogna parlare: i ragazzi, magnificamente capitanati da un perfetto capociurma, Giulia Battistini, sono cordiali, competenti, rapidi e tranquilli nello stesso tempo, ti mettono nella condizione migliore per gustare il pasto.
Un pasto, dove oltre la tecnica, è l’italianità in primo piano: nella degustazione Condivisione (menu a 95 euro, mentre alla carta la spesa si aggira intorno agli 80 euro in base a quello che sceglierete) vi arriverà subito una cascata di piattini, quello che tradizionalmente è l’antipasto all’italiana – no buffet, please – sdoganato anni fa da Enrico Crippa in quel di Alba a Piazza Duomo. Qui è tutto pesce che riporta alla memoria le gite fuori porta d’antan al mare. Il crudo: la ricciola, frollata, burrosa e piena di umori, si marita con gamberi rosa, semi di pomodoro e basilico; il muggine, mare puro, gioca con le fave e il limone di mare, ma anche l’immersione nell’Adriatico con la fantastica canocchia ripiena di pomodoro arrosto e nella tartare di sgombro e seppie con asparagi e caviale. E il tocco di cotto negli spiedi di cuore di tonno.
Sarebbe già sufficiente, ma si è solo all’inizio: sorseggiate un goccio di vino, da una carta territoriale e naturale, mentre arriva il primo intervallo, il brodo di paganelli con i passatelli tagliati come fossero una pasta reale. E si passa al secondo atto, un trancio di dentice grigliato, la pelle croccante, il suo pil pil, le vongole, buonissimo, ma intorno arriva altra Italia: i contorni, la trippa di pesce in umido con guanciale e parmigiano, una cipolla alla cenere. Contorni, che dopo un succo di cocomero ghiacciato, ritornano a segnare il terzo atto del pranzo, il più primordiale: il fegato di muletto (qui con le frattaglie si fa sul serio nell’ottica, golosa, del no waste) alla brace, fondo di pollo e bietoline e degli asparagi anche loro infuocati dalla brace fanno da ancella ad una coda di ricciola prima fritta e poi finita a raccogliere l’umore di un umido di funghi. La gioia di spolparla, finito lo spazio per le posate, con le mani è impagabile – e sappiate che il giorno prima poteva capitarvi un collo di cernia. Peccato che in questo cerchio di italianità, tra servizio, cotture, tecniche, sempre al servizio del gusto, la parte finale del viaggio, i primi, siano meno convincenti, per un filo di sapidità di troppo sia nel riso alla brace, sugo di canocchie, calamari e ortiche che nello spaghettone tiepido alla bottarga.
Ma non inficia il senso di piacevole star bene, allungato dalla casalinga crostata a con amarene e crema, che ha attraversato tutto il pranzo, di quelli che richiamano i ricordi giovanili di pranzi domenicali a mare, traslato all’oggi senza sotterfugi e vie di fuga. Dovrebbe essere la formula del successo.