Miti da sfatare: il latte fa male?
Bere latte e consumare regolarmente prodotti lattiero-caseari fa male? Abbiamo chiesto alla nostra nutrizionista di chiarire la situazione.
Tutti una volta nella vita abbiamo bevuto un bicchiere di latte, ma vi siete mai chiesti se il latte fa male? L’abbiamo chiesto alla Nutrizionista.
Il latte fa male?
Il latte e in generale i prodotti lattiero-caseari sono una fonte importante di proteine, vitamine (specie retinolo e vitamine B2 e B12), potassio, fosforo e zinco, oltre che di calcio, sia per gli adolescenti e sia per gli adulti. dovremmo assumere circa 3 porzioni giornaliere di latte o yogurt Eppure i consumi di latte e yogurt, nel nostro Paese, sono ben lontani dai livelli di assunzione indicati dalle linee guida per una sana alimentazione; mentre i consumi di formaggi sono in eccesso rispetto alle raccomandazioni, che ne suggeriscono 2-3 porzioni la settimana (da 100 g per i formaggi freschi e da 50 g per i formaggi stagionati). Questo limitato apporto di latte e yogurt, se non adeguatamente compensato, può causare criticità nell’apporto di specifici macro e micronutrienti. Nel dettaglio, le linee guida per una sana alimentazione italiana raccomandano 3 porzioni giornaliere di latte o yogurt (una porzione corrisponde a 125 ml di latte o 125 g di yogurt), alle quali vanno aggiunte (a seconda del fabbisogno energetico) da 2 a 3 porzioni a settimana di formaggio fresco (100 g) o stagionato (50 g) (dati NRAN 2003; SINU 2014).
Il latte nella dieta dei bambini
A partire dall’età di 3 anni è molto importante promuovere il consumo di latte vaccino, soprattutto per il contenuto di proteine digeribili e di calcio, il cui apporto adeguato è essenziale in questa fase della vita. A partire dai 3 anni le linee guida consigliano infatti due porzioni al giorno di latte e yogurt, una a colazione e una a merenda, per coprire il 50% del fabbisogno di calcio. Uno studio condotto in 200 bambini italiani di 8-9 anni ha dimostrato l’efficacia di un intervento educazionale finalizzato a promuovere l’assunzione di cibi ricchi di calcio: l’apporto del minerale risultava aumentato significativamente in associazione con l’aumento dei livelli di consumo di latte (Pampaloni et al. 2015). Proprio per questo motivo il latte è stato posizionato alla base della piramide alimentare definita dalla Società Italiana di Pediatria tra gli alimenti per i quali si prevede il consumo quotidiano (vedi figura sotto).
Il latte vaccino non è invece indicato prima dei 12 mesi di età, soprattutto per i rischi nutrizionali riguardanti l’eccesso proteico e il rischio di carenza di ferro. Successivamente, dopo i 12 mesi, per mantenere l’apporto proteico entro il 15% delle calorie, è opportuno inserirlo con moderazione nella dieta del bambino cercando di non superare i 300 ml circa al giorno.
Il latte nella dieta degli adulti
Come detto precedentemente, in Italia i consumi medi di latte nella popolazione adulta sono decisamente inferiori alle raccomandazioni e tra i più bassi in Europa. il nostro consumo di latte è inferiore alle raccomandazioni ed è tra i più bassi in europa La dieta della popolazione italiana femminile, complice anche il basso apporto di latte e yogurt, è mediamente inadeguata in termini di contenuto di calcio già a partire dall’adolescenza. Le possibili conseguenze non riguardano soltanto la crescita e la massa ossea, ma anche il rischio di diabete, malattie cardiovascolari e alcuni tumori. Inoltre una caratteristica interessante del latte è l’effetto saziante dimostrato da diversi studi, con la conseguente minore assunzione di calorie al pasto seguente. Tale effetto si manifesta soprattutto se il latte è consumato come alimento a colazione (come nella nostra tradizione) e non come bevanda ai pasti (come invece nella tradizione anglosassone). Pertanto sarebbe sufficiente incrementare le porzioni giornaliere di latte/yogurt (dall’1,1 attuale alle 3 raccomandate) riportando i consumi di formaggi entro i livelli raccomandati dalle linee guida (2-3 porzioni settimanali) per ottenere un aumento rilevante (25-35%) dell’assunzione di calcio, senza modificare l’apporto energetico complessivo e riducendo inoltre la quota giornaliera di grassi totali, di grassi saturi e di sale.
Assunzione di calcio
Va comunque ricordato che il latte non è l’unico alimento che contiene calcio: molti vegetali, dalla salvia alle mandorle, dal prezzemolo ai broccoli, al cavolfiore e ai legumi, ne contengono in assoluto concentrazioni interessanti; come del resto molte acque (dall’acqua potabile del rubinetto a molte acque minerali). Bisogna però considerare complessivamente il tenore di calcio, il valore energetico della razione di ogni alimento utile ad assumerlo e il costo relativo, solo così osserviamo che si tratta in generale di fonti meno interessanti sul piano pratico, se confrontate con il latte vaccino. A questo bisogna aggiungere l’elevata biodisponibilità del calcio assunto con il latte, condivisa dalle acque, ma non da tutti i vegetali prima ricordati. Questo vuol dire che anche senza l’assunzione di latte e derivati si può assumere il calcio (conoscendo gli alimenti che lo contengono), ma sicuramente rispettare le linee guida ci assicurar una buona quantità giornaliera di questo minerale.
Intolleranza al lattosio
Molto spesso il latte e i suoi derivati sono eliminati dalla dieta per una diagnosticata o presunta intolleranza al lattosio. Il lattosio è uno zucchero presente nel latte e derivati che una volta arrivato a livello intestinale per essere digerito e assorbito deve essere scisso dall’enzima lattasi. Se questo non avviene il lattosio raggiunge i distretti più lontani dell’intestino, fino al colon e fermenta, producendo gas e gonfiore, richiamando acqua, e dando quindi origine a spiacevoli conseguenze, come per esempio la diarrea osmotica. La carenza della funzionalità di questo enzima lattasi interessa circa il 70% della popolazione mondiale in età adulta, e si manifesta spesso in età adolescenziale o adulta. La lattasi è un enzima inducibile, pertanto, se un individuo geneticamente tollerante al lattosio smette di bere il latte, diventa fisiologicamente intollerante perché la produzione di questo enzima si abbassa, diventando insufficiente. Tuttavia, la lattasi si può riattivare, inserendo piccole dosi di latte con progressivi aumenti.
Per i soggetti geneticamente intolleranti, invece, la lattasi resta sempre insufficiente, e quindi un sovraccarico di lattosio genera problemi. È bene ricordare che l’intolleranza al lattosio non è un’allergia e l’intollerante al lattosio non è obbligato a evitare totalmente latte e latticini. Inoltre molte persone riferiscono comparsa dei sintomi di intolleranza al lattosio anche in assenza di un’evidenza di malassorbimento. La semplice associazione tra ingestione del lattosio e comparsa dei sintomi può quindi portare a un’erronea autodiagnosi di intolleranza; spesso invece i sintomi sono conseguenza della presenza di una sindrome dell’intestino irritabile (IBS) o di un’allergia alle proteine del latte o ancora di un’avversione psicologica agli alimenti contenenti lattosio.
In ogni caso è importante tenere presente che, non trattandosi di un’allergia ma di un’intolleranza, si è di fronte (nei casi realmente diagnosticati) a una condizione nella quale i sintomi sono dose-dipendenti e pertanto piccole quantità non danno in genere origine ad alcuna sintomatologia. Nei soggetti con diagnosi certa è fondamentale individuare la quantità necessaria a stimolare i sintomi e provare a garantire un’alimentazione completa, senza superare tale soglia di lattosio. L’uso di latti delattosati e/o di prodotti lattiero caseari a basso tenore di lattosio, o ancora l’assunzione di lattasi prima del pasto, permettono l’assunzione di questi prodotti senza incorrere nei disturbi gastrointestinali conseguenti alla carenza di lattasi. Inoltre, i formaggi stagionati e lo yogurt non contengono comunque lattosio in quantità sufficienti a determinare, in genere, la comparsa della sintomatologia. Nel caso dello yogurt può svolgere un effetto protettivo anche la lattasi prodotta dai lattobacilli dello yogurt stesso.
Latte, salute e malattia
Relativamente all’assunzione di latte e la riduzione del rischio di diabete di tipo 2, i risultati degli studi disponibili non sembrano supportare in modo definitivo un ruolo protettivo del consumo di latte e derivati sul rischio di diabete tipo 2, anche se emerge dai dati un trend favorevole. Mentre per lo yogurt e i prodotti fermentati l’evidenza della riduzione del rischio è invece robusta. In relazione al sovrappeso e obesità, il consumo di latte si associa a una riduzione del peso corporeo solamente negli studi trasversali, ma non in quelli prospettici. Si può in ogni caso escludere un effetto sfavorevole del consumo di latte sul rischio di sviluppare sovrappeso e obesità.
L’idea che il consumo di latte (specie intero) si associ a un aumento del rischio cardiovascolare, e di infarto in particolare, è diffusa sia nel mondo medico e sia tra il grande pubblico. Il motivo principale di questa percezione risiede probabilmente nel fatto che il latte contiene una quota significativa di acidi grassi saturi (circa il 70% del totale) ed è noto che questi acidi grassi tendono ad aumentare i livelli del colesterolo LDL, un riconosciuto fattore di rischio di malattia coronarica e di infarto. Dagli studi fatti si può concludere che il consumo di latte vaccino non correla con il rischio cardiovascolare. La frazione lipidica del latte, probabilmente per la presenza degli acidi grassi saturi a corta catena e delle membrane che rivestono i globuli lipidici del latte stesso, non sembra avere un effetto sfavorevole sul colesterolo; la relazione tra grassi saturi e rischio coronarico è in fase di revisione.
In conclusione non esistono attualmente motivi, al di fuori delle condizioni di allergia e delle intolleranze sintomatiche al lattosio (gestibili peraltro scegliendo i prodotti senza lattosio), per limitare o bandire il consumo alimentare di latte vaccino e dei suoi derivati.