Le donne della mixology: intervista a Giulia Cuccurullo, head bartender di Artesian Bar a Londra
Una serie di interviste per raccontare le donne che stanno cambiando il mondo della Mixology: oggi tocca a Giulia Cuccurullo.
Grintose, determinate, quasi modeste nel raccontarsi. Eppure di cose da dire ne hanno tante e mica solo perché sono donne. Stanno cambiando da dentro l’industria dei grandi bar e la miscelazione di alto livello e non sono affatto arrivate lì per caso. Come Bar Manager, Head Bartender e Responsabili sala, hanno lavorato tanti anni per questo obiettivo, spesso sfidando ogni convenzione di quel Gentlemen’s Club che è il mondo del bar, soprattutto in ruoli manageriali. Ma non sempre ne viene raccontato il ruolo e le sfide. Per questo abbiamo deciso di dedicare loro alcune interviste, raccontare le loro storie. Iniziamo con una italiana che ha conquistato Londra, Giulia Cuccurullo, da un anno Head Bartender dell’Artesian bar di Londra.
Coordina una squadra di una decina di persone, che torneranno presto a essere la ventina di pre-pandemia. Siamo in uno dei templi del bar d’hotel a Londra, primo per molti anni nella classifica dei World’s 50 Best Bars. Tra i locali più blasonati della capitale UK, all’interno del Langham Hotel, nella centralissima Regent Street. Giulia Cuccurullo sarà a Roma il 9 maggio al The Court, a chiudere la kermesse tutta al femminile Women First e presenterà un menu di tre drink. Il cocktail bar di Palazzo Manfredi con vista sul Colosseo, ha voluto infatti valorizzare la figura della donna nel mondo dell’ospitalità. Un progetto, sviluppato dal bar manager Matteo Zed, che ha in squadra al The Court molte donne, come Aurora Sofia Perretta, Samantha Parente e Federica Ticconi. L’iniziativa, partita il 7 febbraio con Priyanka Blah, di The Dram Attic, prosegue il 21 marzo con Elpida Antonopoulou del Barro Negro di Atene, il 28 marzo con Melanie De Conceiçao Bonilla e Wilke Miriam Rebecca dal Salmon Guru di Madrid infine il 25 aprile è la volta di Lozada Sanchez del Brujas di Città del Messico.
Raccontami come hai iniziato e quale il tuo percorso per arrivare all’Artesian bar a Londra.
Sono di Napoli, mi sono trasferita a Londra 9 anni fa. Volevo fare solo un’estate, imparare bene l’inglese, fare una esperienza di lavoro nei locali della città e poi sono rimasta. A Napoli già lavoravo nel mondo bar, mentre studiavo per l’università. Sono laureata in architettura. Ma dopo la laurea volevo prendermi del tempo, avevo iniziato a lavorare in alcuni locali e volevo vedere se era quella la mia strada. Londra mi è piaciuta subito. Mi piaceva il fatto che è tosta, che ti spinge sempre a migliorare, ti motiva, non sei mai fermo sugli allori, ti sta con il fato sul collo e se hai la passione, vai avanti. All’Artesian Bar ci sono arrivata quasi 4 anni fa, ad agosto, dopo una breve esperienza a Parigi, dove si stava aprendo un mercato nuovo, interessante e io ero curiosa di andare. Mantenevo però la casa a Londra. Un ragazzo che conoscevo mi ha detto: vuoi tornare e venire all’Artesian? Ho detto subito sì. All’inizio come Bartender, poi Supervisor, e da 1 anno sono Head Bartender.
Come Head Bartender qual è lo stile personale che stai portando al bar?
All’Artesian, come anche negli altri locali dove ho lavorato, mi sono sempre messa in prima persona a provare a capire il posto e farlo mio. Sai, non ha tanta importanza se lavori in uno street bar o in un elegante bar d’hotel. Per me il tipo di servizio deve essere lo stesso, l’attenzione ai clienti la devi sempre far sentire sia che paghino un cocktail 9 pound sia che ne spendano 20. Così ho sempre fatto, ho sempre cercato di fare miei i luoghi in cui ho lavorato, esprimere me stessa. Anche perché c’è la mia faccia dietro.
Come si riflette il tuo stile sull’attuale carta?
Per me il risultato finale di un drink è molto importante. L’ospite è al centro della esperienza. Deve stare bene, ma non ne deve vedere lo sforzo, nel servizio come nel cocktail che beve. Effortless, senza sforzo appunto, è la parola inglese che esprime questo concetto, ed è anche la mia filosofia. Il servizio deve essere fluido, le persone devono stare bene senza sapere perché, non se ne devono accorgere del lavoro che c’è dietro. Anche nei drink, amo che siano puliti, belli, abbiano una estetica semplice, effortless appunto. Magari ci hai messo 3 ore per fare le preparazioni, parlo in particolare dei signature, ma il cliente non ha bisogno di saperlo. Alcuni menu intimidiscono, non sono capiti, devi rendere tu semplice il lavoro anche complesso che fai. Non puoi pensare di fare una lezione ai tuoi ospiti citando ingredienti o tecniche che potrebbero non conoscere o capire. Li metteresti a disagio. E allora meglio la semplicità, una moderata semplicità. La mia è una attenzione al risultato, al sapore finale, non al come, che se poi lo vogliono sapere, i drink li spieghiamo sempre.
Vuoi raccontarmi come è strutturata la carta attuale e un paio di proposte che secondo te ti rappresentano?
La carta si chiama Connection. La cambieremo a Maggio ma il concetto ci piace e resterà anche se declinato in modo diverso. L’idea delle Connessioni, appunto, nasceva durante i vari lockdown che tutti abbiamo vissuto, divisi ma paradossalmente più connessi. Sono cinque le sezioni e per ciascuno una serie di drink signature: Wellness, Celebration, Sustainability, Community e Happiness. La prima è tutta giocata su cocktail di ispirazione naturale; la seconda contiene drink a base champagne, ma piuttosto unici come il Treat Yourself, un milk punch ma con l’uso di soia yogurt, successivamente disidratato; nella sezione Community abbiamo voluto inserire il concetto dei piccoli brand locali di Londra, come il super local Kanpai Sake o come nel drink Layer Cake dove usiamo un distillato di chocolate malt locale. Per la nuova carta, ci stiamo lavorando, ho chiesto a ciascuno dei ragazzi del team di portarmi due proposte che inseriremo. Ho chiesto loro semplicità, drink puliti, immediati ma una esplosione di sapori. Punteremo sempre di più sul concetto di sostenibilità. La considero centrale, non lo devo neanche più dire. C’è e basta. Vogliamo avere il meno possibile di sprechi. Come bar grande devi sempre valutare le scelte che fai, anche sugli ingredienti e come li usi.
Quale secondo te è la città da scoprire oggi per la mixology?
Te ne direi due, Singapore e Hong Kong. Da Londra e New York, tanti bartender sono andati in Asia, con la possibilità di sviluppare i propri progetti. Poi il Sud America e il Messico che spingono molto, sono orgogliosi dei propri prodotti, li sanno valorizzare. Dovremmo farlo di più anche noi italiani che nell’arte dell’ospitalità siamo bravissimi, abituati fin da bambini a essere ospiti o a ospitare. E poi abbiamo una grande sensibilità a trattare gli ingredienti, averne rispetto. Non è da tutti, ed è quello che chiedo ai miei ragazzi, di tante nazionalità, alcuni anche italiani.
Quali le maggiori sfide dell’industria che ti sei trovata ad affrontare come donna?
Non ci sono tante differenze, almeno non lo è stato per me. Ma è la mentalità che fa la differenza, il mindset. Devi partire da te stessa. Perché ci limitiamo? Perché rinunciamo? Spesso ce lo abbiamo nella testa, ci autolimitiamo. Una mentalità che nasce da generazioni e può cambiare nella misura in cui ti chiedi, da dove viene questa idea di non farcela, di tirarsi indietro? Dal fatto che te lo hanno sempre detto. Ecco, se ne sei consapevole, allora puoi superare questo ostacolo. Questo dico alle ragazze che vogliono fare questo lavoro: non limitarti, togliti quel pensiero dalla testa. Solo allora puoi esprimerti appieno. E non pensare mai a cosa possano dire gli altri.