Ecco perché in Italia non abbiamo (ancora) nessuna cultura del caffè
Parliamo di candidare il rito del caffè espresso all’Unesco, ma quanto conosciamo questi chicchi? Le nostre tazze sono davvero superiori a quelle che si bevono all’estero? Ne abbiamo parlato con il barista e torrefattore Andrea Panizzardi
In tutto il mondo l’Italia è riconosciuta per essere la patria del caffè, dell’espresso in particolare, e spesso, quando andiamo all’estero, critichiamo quel liquido scuro che ci viene servito in tazza. Siamo talmente fieri della nostra tradizione che nel 2022 il “caffè italiano espresso tra cultura, rituali, socialità e letteratura nelle comunità emblematiche da Venezia a Napoli” era stato proposto come candidato tricolore a patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco. Candidatura poi bocciata dalla commissione nazionale per l’Unesco (a favore dell’opera lirica), che, in effetti, non aveva tutti i torti. Alla luce di questo, la domanda che ci siamo posti è: in Italia infatti esiste davvero una cultura del caffè? Sappiamo riconoscere un prodotto ben estratto? Conosciamo il sapore di un buon caffè? Abbiamo un’idea dei luoghi di provenienza della materia prima? Lo chiediamo lungo, corto, doppio, macchiato caldo o freddo, in tazza di vetro, con lo zucchero, corretto, shakerato e chi più ne ha ne metta. Conosciamo tutte le possibili ricette, ma ci fermiamo mai un istante a sentirne il profumo, lo assaporiamo un secondo prima di farlo scivolare in gola alla velocità della luce? O forse è vero che gli italiani non conoscono il caffè?
Quanti tipi di caffe esistono?
Oltre all’espresso e alla moka, il mondo del caffè offre molto di più, peccato che in Italia non ci stiamo facendo molto caso. Esistono infatti diversi tipi di preparazione, con differenti risultati in tazza, ed esistono gli specialty coffee ovvero caffè selezionati per condizioni ambientali e climatiche che in tazza regalano un determinato profilo gustativo, grazie anche alla particolare lavorazione che ha permesso di preservarne tutte le caratteristiche uniche. Non è un caffè come gli altri e all’estero lo sanno bene, ma c’è chi, anche nel nostro Paese, cerca di portare questo mondo, questa maggior conoscenza della materia prima e dei suoi diversi tipi di estrazione rompendo i canoni della tradizione. Tra questi, Andrea Panizzardi, conosciuto come il Panizza, barista della Specialty Coffee Association (Sca), campione italiano di moka e aeropress, formatore, torrefattore e fondatore di Alternative Coffee Panizza di Casalnoceto (Al). Vediamo che cosa ci ha spiegato.
Gli italiani ne capiscono di caffè?
In realtà per esser precisi la domanda che abbiamo posto è Ci riteniamo la patria del caffè, ma c’è davvero questa cultura, in base alla tua esperienza?
“Noi abbiamo una cultura intesa come rituale, come tradizione, ma mentre all’estero studiano che cos’è il caffè e come migliorarlo dalla piantagione al trasporto, alla torrefazione, all’estrazione e così via, noi ci crogioliamo sul fatto di avere creato il rito del caffè, ciò che sta attorno alla tazza piuttosto che quello che ci sta dentro. Credo sia arrivato il momento di evolversi e poi mi capita di girare tra i bar e mi sembra che si sia perso anche l’aspetto rituale che ci differenziava. Non c’è più il rito di fermarsi davanti a una tazzina e chiacchierare di calcio o di politica. Si ingurgita al banco di corsa senza sapere che cosa stiamo bevendo, che profumo ha, ecc. Non c’è empatia con il barista o la barista, non c’è attenzione alla preparazione delle bevanda o al servizio.”
Perché gli italiani dovrebbero aprirsi a tutte le sfaccettature di questo mondo?
Non è un obbligo ovviamente, ma in questo modo il consumatore medio potrebbe provare un’esperienza nuova e potrebbe accorgersi che un’estrazione in filtro o un espresso oggettivamente fatto bene potrebbe, per esempio, non farti mettere lo zucchero nel caffè o farti ricredere su certi aspetti. Per esempio, c’è chi dice che tre tazze di caffè facciano male ma magari è la tostatura a essere eccessiva o la quantità oppure non si ha il controllo dell’acqua o del caffè che si sta utilizzando. Ci sono poi chicchi che sono in giro da più di 10 anni e quindi devi spingere sulla tostatura per renderli accettabili con il rischio che una tazza di quel caffè ti porterà ad avere problemi gastrointestinali.
Tu come hai scoperto gli specialty coffee?
Ho iniziato a lavorare molto presto nel bar del mio paese, Capaci (Pa). In bassa stagione c’era una clientela fissa, che chiedeva una caffetteria prettamente sud italiana, mentre nel resto dell’anno i turisti cercavano un tipo di caffetteria più europea o comunque legata al nord Italia quindi sono cresciuto con una mentalità aperta. Tra il 2013 e il 2014 sono stato più volte a Londra e un giorno sono stato attirato da una caffetteria con la scritta speciality coffee. Entro, chiedo un espresso e il barista mi chiede subito se sono italiano. Anche lui era italiano e mi ha sorpreso dicendo che di caffè non ci capivamo niente. Così mi spiega che cos’è un caffè monorigine e i vari tipi di estrazione. Mi ha fatto poi assaggiare due V60, un caffè dell’Honduras e uno dell’Etiopia. Uno era dolcissimo, sembrava una spremuta di amarene. Il secondo invece era la cosa più acidula e fresca che avessi mai assaggiato. Quindi sono tornato in Italia con l’idea di introdurre questo mondo tra i nostri appassionati.
Qual è il caffè preferito dagli italiani?
Oltre all’espresso al bar e la moka a casa, sto notando, nel mio piccolo, che molti usano la caffettiera americana ma hanno paura a dirlo. Vengono da me, prendono il loro caffè in grani, come una volta, o se lo fanno macinare al momento, ma hanno paura di dichiararlo apertamente perché siamo ancora troppo legati alla tradizione.
C’è quindi un interesse verso gli speciality coffee?
Quando ho iniziato nel 2015 a propormi con questo menu di caffetteria ho rischiato di essere considerato pazzo mentre oggi sono conosciuto come quello dei caffè particolari e ci sono persone che si fanno anche un po’ di strada per venire nel mio locale. Per esempio, ho dei clienti di Genova che si fanno un’ora di macchina ogni settimana per provare ogni volta una proposta nuova. Ci sono poi ragazzi tra i 18 e i 25 anni che non bevono espresso, ma mi chiedono una chemex, una V60, sono curiosi di provare il Syphon… e sono disposti a pagare di più per poter assaggiare qualcosa di diverso.
Sono allora i giovani quelli più affascinati da questo mondo? Chi sono i tuoi clienti?
Allora, chi si approccia al mondo degli specialty in filtro o pure in moka hanno tra i 18 e i 25 anni. Chi invece vuole bere un espresso di un certo tipo, come un monorigine arabica, hanno tra i 35-40 e i 55 anni.
Come sei arrivato a questo risultato?
È un grande lavoro di comunicazione quotidiana verso il cliente, ma non solo. Per esempio nell’insegna ho l’indicazione “specialty coffee” quindi la gente entra e chiede informazioni. Per questo è molto importante formare il personale in modo che sappia rispondere a questa domanda. È importante potersi dedicare al cliente e il cliente deve potersi dedicare del tempo. C’è poi tutto un lavoro di formazione personale perché non dobbiamo mai metterci su un piano di superiorità e di chiusura… stiamo lavorando e costruendo anche per chi arriverà dopo e si troverà un consumatore che chiederà qualcosa di diverso e non solo nella ricetta, ma proprio nella materia prima. Un po’ come è successo 25 anni fa nella latte art con Andrea Lattuada o Luigi Lupi. Un giorno il caffè non sarà più semplicemente “caffè di qualità”, ma caffè di qualità arabica o robusta, caffè specialty, caffè monorigine, ecc.
Per arrivare a questo traguardo pensi possano servire anche dei corsi, delle scuole, degli eventi, ecc?
Per me è solo un grande lavoro di comunicazione, portato avanti da persone formate che non si devono far spaventare da gente che gli ride in faccia. Un professionista deve essere sicuro di se stesso, del suo prodotto, che ovviamente deve essere valido, e del suo lavoro.
Che cosa si può fare per migliorare la cultura del caffè in Italia?
Dobbiamo trova l’assonanza con quello che in Italia è più vicino. La produzione del caffè, come frutto, è troppo lontana come concezione e come distanza fisica dal nostro territorio, a parte quello che sta succedendo oggi in Sicilia. Per questo è importante aiutare il consumatore medio proponendo una corrispondenza con ciò che già conosce, come il vino, le ciliegie, ecc. Ecco, io sono avvantagiato perché mi trovo in una zona agricola e qui anche il contadino sa che cos’è un terroir. Sa che se pianta le viti di Timorasso a Monleale (Al) otterrà un vino diverso dalle viti cresciute a Castelnuovo Scrivia (Al), per esempio. O la Bonarda, che nel Pavese è dolce e nel Monferrato è asprigna. E nel caffè è uguale: lo specialty coffee è una sorta di Docg o Doc del caffè perché va a specificare dove è stato coltivato, l’annata di raccolta, come è stato lavorato, come è stato trasportato, come stato tostato, ecc. Solo conoscendo tutto questo diventi vaermanete consapevole di che cosa stai bevendo.