Merenda sinoira: ma quale apericena
La merenda sinoira è un pasto tradizionale piemontese, simile al momento dell’aperitivo, ma dall’importanza culturale e storica molto differente.
Prima che il brunch e l’aperitivo iniziassero a scandire i tempi della società bene, e molto prima che i pasti diventassero un’occasione di incontro invece che una necessità nutritiva, il concetto di aperitvo-cena esisteva già. la merenda sinoira, antenata illustre e contadina dell'aperitivo, è originaria del piemonte Anzi: quello che oggi è così definito per dare una consistenza nuova al bicchiere assaporato prima di un pasto principale, un tempo rappresentava un’occasione quasi istituzionale che, nel Piemonte rurale degli anni che furono, aveva un nome tutto suo, arrivato fino ai giorni nostri con tutto il carico di simbologia che la storia gli ha offerto in dote: merenda sinoira, nota anche come marenda sinoira, in base alla zona in cui il dialetto ha forgiato la parola nel tempo. Va da sé che oggi il concetto di merenda sinoira assume un significato maggiore per chi sa guardare indietro alla storia da cui ha avuto origine. E chi conosce questa storia, oggi quasi sorride al cospetto del cosiddetto apericena poiché la differenza sta tutta nel significato, e quindi nel valore culturale, dei due termini.
Il contesto
Per capire cosa sia la merenda sinoira occorre partire dal contesto in cui nasce. Il Piemonte, anzitutto; non quello torinese dei castelli e delle vie cittadine, dei Savoia o dei salotti del centro, ma quello cuneese, novarese, alessandrino, astigiano, laddove la campagna la fa da padrona e dove il tempo è scandito dalle campane e dal lavoro. Quello dei libri di Fenoglio, quello che profuma di campi e di sudore, quello di terre lontane dai fatti raccontati nei libri scolastici. Bisogna anche cambiare secolo, andando indietro fino alla seconda metà del 1800 (sarebbe azzardato, ma non certo proibitivo, spostare ulteriormente indietro la lancetta). Per capire il tutto bisogna immaginare una società contadina, un mondo senza elettricità, un’Italia povera e un Piemonte nel quale il fiasco di vino e un pezzo di pane, nonché il balin delle bocce e un balun da prendere a pugni, rappresentano il motore primo dell’aggregazione sociale.
Serve quindi uno sforzo di immaginazione, perché era quello un mondo molto differente da quello odierno. Nell’alimentazione la qualità era rappresentata dalla varietà (la carne era un lusso), la salubrità era garantita dalla provenienza (l’orto di casa era la fonte principale e quasi esclusiva, assieme alla Provvidenza) e la quantità era sinonimo di accoglienza (dove la povertà è la regola, l’abbondanza è l’eccezione). Ma in un mondo costruito su queste regole, il lavoro viene ad avere un valore di eccezionale spessore: è la misura della dignità, è lo specchio dello spessore morale, oltre che fonte univoca di ricchezza: non c’è denaro e non c’è risparmio, perché dove c’è povertà sono il lavoro e la roba a costituire la speranza per il domani.
Tra pasto e lavoro
Erano pertanto tre gli elementi a dettare i ritmi della giornata: l’alternarsi delle stagioni, il ciclo del sole e le faccende lavorative. La giornata iniziava presto, molto presto, dunque al primo bagliore dell’alba occorreva essere al servizio delle poche vacche nella stalla e delle galline nell’aia. la giornata contadina viene scandita dal lavoro nei campi e dai pasti, momenti in cui rinfrancarsi e riprendersi dalle fatiche Espletati questi lavori, poteva iniziare una lauta colazione: la giornata sarebbe stata lunga e dura, perché i campi attendevano cure improntate sul mero sforzo fisico e lunghe camminate lungo i canali e i filari. Veniva quindi il pranzo: le campane suggerivano da lontano di tornare a casa per cibarsi e, mentre i dodici rintocchi risuonavano nelle pianure e nelle vallate, ci si avviava così verso la tavola asciugando i sudori della fatica. La giornata non era però terminata, anzi: nei mesi estivi, infatti, il tramonto è tardivo ed il lavoro nei campi è molto, quindi occorre sfruttare tutto il tempo disponibile per il bestiame e per la raccolta. Ed è in questo contesto che nasce la merenda sinoira. Dopo ore di lavoro sotto il sole, quando la fatica fisica e mentale iniziavano a pesare eccessivamente sulle spalle e sotto il cappellino di paglia degli uomini, ecco arrivare dalle case le donne con il loro fagotto: un fazzoletto contenente non solo il nutrimento, ma anche un modo per rinfrancare dalla fatica, aggiornare sulle novità di casa e cementare l’unione famigliare nel rispetto dei ruoli arcaici dell’uomo-padre nei campi e della donna-madre in casa. Merenda sinoira: arriva a metà tra la merenda e la cena, ma si situa a metà tra i due concetti anche a livello quantitativo. Merenda, vista l’ora, ma sinoira, traducibile in tendente alla cena. Come l’apericena, insomma, ma in un mondo diverso, con valori diversi, con cultura diversa.
Questo pasto ha una precisa allocazione stagionale, peraltro: le giornate brevi e fredde dell’inverno non sono certo quelle del cibo da consumarsi nei campi. Un dizionario del 1859 inseriva la merenda sinoira, facendo appello a un antico proverbio piemontese, tra San Giuseppe (fine marzo) e San Michele (fine settembre), prendendo in mezzo tutta la primavera e tutta l’estate.
San Giusep a porta la marenda ant el fassolet, San Michel a porta la marenda an ciel
(San Giuseppe porta la merenda nel fazzoletto, San Michele porta la merenda in cielo)
In una società nella quale la conoscenza era trasmessa essenzialmente tramite la cultura orale, erano queste le pratiche necessarie per i depositari del sapere: santi, proverbi in rima e ricorrenze rappresentano elementi fondamentali per tramandare precetti, regole, esperienza e abitudini.
Pane contadino. Salame. Formaggio. Un fiasco di vino. Della frutta – inutile dire frutta di stagione, poiché il concetto fa parte dell’ovvio. Poi i lavori riprendono ancora per qualche ora, quando l’incedere del tramonto consiglia di tornare alle proprie case: a questo punto l’appetito non è più eccessivo, lo stomaco consiglia un pasto leggero per un riposo migliore e la stanchezza proietta più verso il giaciglio che non verso la tavola. Un soffio sulla candela, un ultimo sguardo al buio dei campi, una preghiera verso il Cielo, quindi a letto: la giornata successiva inizierà presto.
La merenda sinoira
Se è vero che il cibo è anzitutto cultura, allora tale prolissa introduzione ha un suo valido fondamento: per capire la merenda sinoira bisogna capire anzitutto da dove proviene. Il perché prima del cosa, per poi capire dove evolve il tutto fino ai giorni nostri: l’introduzione dell’elettricità ha rivoltato le abitudini delle famiglie, il dopoguerra ha portato maggior benessere nel paese e poco alla volta la cultura contadina è andata sfumando a mano a mano che la ritualità del lavoro è stata sostituita da macchinari, innovazione, procedure e migrazione verso le città. Il Piemonte di oggi è molto differente da quello di allora, ma nelle campagne c’è ancora un ben percettibile nesso culturale e generazionale con quel che è stato. Per questo il termine apericena può urtare chi ben sa di non aver bisogno di nuove parole per esprimere vecchi concetti: la merenda sinoira c’era, c’è sempre stata e, finché il nome non sarà defenestrato a forza dalla cultura diffusa, rimarrà. Oggi la merenda sinoira viene recuperata dalla maggior sete di cultura del cibo; viene rilanciata da chi ha tentato di recuperare i valori veri e primi della cultura dell’alimentazione; diventa il nome di vinerie e ristoranti; rivendica la propria dignità tornando a circolare nella volgata comune.
Inevitabilmente anche la merenda sinoira è cambiata, poiché il testo non può rimanere il medesimo se il contesto è mutato radicalmente. Non c’è più il fagotto e non c’è più la fatica, non c’è più la donna di casa e la famiglia patriarcale basata sulla centralità dell’uomo. I ritmi sono scanditi da altre necessità, il calar del sole non si nota più e pochi fanno caso ai rintocchi delle campane. La merenda, necessità fondamentale della società che fu, è oggi un fuoripasto da evitare o un break leggero per non rovinare la cena: cambiano i fondamenti. Ma rimane lo spazio, soprattutto quando i ritmi sono più liberi poiché il fine settimana regala maggiori libertà e maggior desiderio di svago.
La merenda sinoira oggi
Il concetto recuperato di merenda sinoira oggi è un orgoglio culturale intriso di dialetto e nostalgia. Inevitabilmente, però, è una reinterpretazione, un derivato. La reinterpretazione deve partire tuttavia da alcuni dogmi: l’orario, anzitutto, che deve posizionare l’appuntamento nel tardo pomeriggio – le 17/18 potrebbero essere un buon riferimento; la frugalità apparente, inoltre: l’assenza di piatti eccessivamente elaborati, situati su tavole imbandite in modo semplice, specchiando l’idea di un pasto da consumarsi con relativa libertà di movimento e beata lentezza; la territorialità, infine, come impronta identitaria irrinunciabile.
Anche il menu si arricchisce: subentra una maggior varietà, aumenta l’abbondanza, si plasma il concetto. La merenda che sfuma nella cena diventa un sostituto vero e proprio della cena stessa, della quale occupa il perimetro temporale e funzionale. Oggi merenda sinoira significa essenzialmente stare assieme dal pomeriggio alla sera, prolungando quello che sarebbe il limitato tempo di un pasto, ma con il vantaggio di non dover finire alle ore piccole. Il tutto, come un secolo prima, frugale e sostanzioso allo stesso tempo. Si stimola l’appetito prima, lo si va a soddisfare poi, prolungando la presenza a tavola per innaffiarla con un buon vino e tante parole. La convivialità è infatti un ingrediente fondamentale, probabilmente quello principale: se la merenda sinoira era un momento per fermarsi e chiacchierare, riposando il corpo e lo spirito, oggi tale caratteristica rimane quella basilare anche nel momento in cui il nutrimento non è più all’origine della pausa.
La merenda sinoira in tavola
Si parte dai salumi: salame artigianale, pancetta al Barolo, prosciutto cotto al forno e lardo alla campagnola. Frugale e sostanzioso? Si passa allora dai formaggi, ma tutta roba tipicamente locale: Raschera, Bra tenero, Toma di Langa e, perché no, un tocco di classe con un Castelmagno accompagnato da miele o Cugnà. La Cugnà è un altro nome che arriva dal passato: mosto di vino, assieme a nocciole, mele, pere ed una grande varietà di ingredienti ulteriori, fino a creare una sorta di marmellata dal gusto unico e perfetta per accompagnare formaggi di particolare carattere.
A conferma del fatto che c’è più cultura storica in un piatto che in mille libri, il menu continua con le immancabili acciughe al verde. Non c’è da stupirsi se in un menu tipico piemontese vi siano le acciughe: nel lontano passato, infatti, il mestiere degli Anciuè (provenienti soprattutto dalla Val Maira nel cuneese) consentiva di arrotondare grazie a lunghe trasferte verso la Francia o verso la Liguria per portare acciughe sotto sale nella terra tipica della bagna cauda (della quale le acciughe sono un ingrediente fondamentale). Per conservare le acciughe durante la trasferta, le si ricopriva di sale: ancor oggi le vie del commercio tra Piemonte e Liguria sono dette Via del sale.
Alle acciughe al verde si affiancano i tomini elettrici (formaggi accompagnati da peperoncino), peperoni al tonno, insalata russa, giardiniera e vitello tonnato. La salsiccia di Bra è una new entry diventata d’obbligo assoluto, mentre la frittata di luvertin (luppolo selvatico) è l’ennesima perla preziosa regalata dalla cucina povera del passato. Bunet, persi pien (pesche ripiene) e il Salame del Papa (salame dolce fatto di cacao, burro e biscotti) sono la parentesi di chiusura di una serata frugale e sostanziosa, come la memoria comanda. Se nel bicchiere si tende a versare quel che ognuno preferisce, è chiaro come sia la logica che la tradizione consiglino vini rossi quali Dolcetto o Barbera, spingendosi coraggiosamente fino a Barbaresco o Nebbiolo. Il Barolo è da escludersi non certo per merito, ma per opportunità: la merenda sinoira è altro e troppa raffinatezza suonerebbe stonata. Una tavola a quadretti colorati, un bicchiere da osteria, pane campagnolo: anche l’immagine deve allinearsi se si intende offrire un significato che vada ben oltre il gusto.
Orgoglio, memoria, cultura
Dietro il recupero della merenda sinoira c’è qualcosa di più del recupero di un’antica abitudine. La semplicità del cibo, la lentezza del pasto e la natura conviviale dell’incontro riportano a un modo differente di approcciare il cibo. Non a caso il nome è rimasto quello della sua lingua originale: il piemontese. Nel nome, infatti, si racchiude un’epoca, una cultura, un contesto. Nel nome c’è il profumo dei campi d’estate, la sensazione dell’aria al tramonto sulla pelle, l’umore della fatica, il calore della famiglia, la sete che allarga la gola, l’eco di vallate isolate dal mondo, dialetti di comunità chiuse, prediche di parroci in veste nera, chiacchiericcio di osterie, essenze di ingredienti da cortile. Se il cibo è cultura e se la cultura è storia, la merenda sinoira è un apericena arricchito di intelligenza storica. Il che rende tutto più autentico e vero, più gustoso e saggio, perché ricorda a ogni boccone che il concetto di mangiare non è stato lo stesso in ogni luogo, in ogni epoca e in ogni circostanza. Anzi.
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