Pino Cuttaia: la pasta e la memoria
Pino Cuttaia, unanimemente considerato uno degli chef più importanti della Sicilia, ci racconta i suoi più affettuosi ricordi legati alla pasta.
Pino Cuttaia è unanimemente considerato uno dei più grandi chef di Sicilia, e d’Italia. Emigrato da giovane a Torino, dopo aver lavorato nell’edilizia, ha deciso qui che sarebbe diventato un cuoco e ha iniziato a fare esperienze nei ristoranti locali. la cucina di pino cuttaia non può prescindere dalla memoria, quella intensa fatta di colori e sapori della sua isola Ma la sua cucina non poteva e non può prescindere dalla memoria, quella intensa e indelebile fatta di colori, sapori e profumi della sua isola, di cui racconta anche nel suo bel libro Per le scale di Sicilia (Giunti Editore). Così, se ne è tornato a Licata – piccolo paese marinaro della Sicilia più remota – e ha aperto con la moglie Loredana il ristorante La Madia. A esso si è affiancato da pochi anni Uovo di Seppia (dal nome di un suo celebre piatto), bottega gourmet e laboratorio di dolci e pasta fresca dall’atmosfera allegra e colorata, per avvicinare le persone al cibo di qualità. I piatti più famosi de La Madia sono spesso giochi tra grande tecnica e suggestioni legate al territorio, dove sapori, usanze e ricette della memoria sono rielaborati in forma nuova e talvolta illusoria. Qualche esempio? La Pizzaiola (una finta pizza con tanto di cornicione, il cui topping a base di patate schiacciate nasconde il merluzzo all’affumicatura di pigna), il Polpo sulla roccia (piatto trompe-l’oeil a base di polpo, la sua acqua di cottura solidificata e polvere di lenticchie fritte a ricreare la grana della sabbia) o il Raviolo di calamaro ripieno di tinniruma di cucuzza, dove l’involucro è fatto da una sottile sfoglia del cefalopode.
Pino, e la pasta vera che fine ha fatto? Non compare spesso nel tuo menu.
È vero, e mi sono anche fermato a chiedermi il perché. Non che non ci sia per nulla, anzi, e noi personalmente ne siamo grandi consumatori: la mangiamo anche due volte al giorno e se dovessi scegliere tra carne e pasta, non avrei nessun dubbio! Da Uovo di Seppia, poi, abbiamo sempre in vendita la pasta fresca che facciamo nel nostro laboratorio usando farine di grani autoctoni siciliani, da quella ripiena agli spaghettoni. Però nel menu del ristorante compare poco, soprattutto quella secca. Forse perché si tratta di un prodotto difficile da modellare per chi vuole fare una cucina contemporanea. Ci è riuscito Scabin con i suoi spaghetti, in Campania giocano molto con i paccheri messi in verticale o cose simili. Ma non è facile trovare nuove forme per la pasta. Allora gioco con altri ingredienti, faccio una sfoglia di calamaro e lo faccio diventare un raviolo… Ma non è un ripiego, tanto è vero che un piatto che amo molto è la minestra di crostacei con lo spaghetto spezzato. E poi, probabilmente, c’entra anche la memoria: per me la pasta vuol dire soprattutto il timballo. Però è un piatto difficile, per forza di cose tende a scuocere soprattutto all’interno e può sembrare una pasta d’avanzo. Non potrei servirlo al ristorante.
Quindi, per le scale del tuo palazzo da piccolo c’era odore di timballo…
Sì, ma anche il profumo del sugo della domenica, o quello delle polpette fritte e poi messe nel sugo, con cui si condiva la pasta. Per noi, però, la pasta secca è sempre stato un piatto con cui ci si doveva sfamare, soprattutto. Per le famiglie di una volta, che avevano vissuto sfiorato la guerra e in cui gli uomini lavoravano dei campi, la pasta era un bene di prima necessità. Per questo, e forse anche perché qui da noi non c’è mai stato un marchio locale a cui fossimo legati in particolare, questo prodotto è sempre stato considerato più in base alla quantità, e al prezzo, che alla qualità. Ho dovuto far capire a mia madre che, considerando che non se ne mangiano più le quantità di una volta, la differenza di prezzo tra una pasta normale e una di qualità incide poco, e conviene comprare un buon prodotto.
Quindi in zona manca una cultura della pasta?
In realtà, a Licata in passato ci sono stati dei grandi pastifici, creati da pastai napoletani. Poi è subentrata l’industria, e ci si è concentrati sul prezzo. Oggi invece si torna a fare attenzione alla qualità della pasta: che sia fatta con grano italiano, che mantenga la cottura, che abbia avuto la giusta essiccazione. Lo si vede nell’assorbimento dell’acqua nella pasta: se è artigianale è molto alto, la pasta si deve idratare con l’acqua della cottura e la assorbe. Però, ad esempio, in Sicilia in generale non c’è tanto la cultura del dente. O almeno non c’era a casa mia. Ripeto, la pasta era vista soprattutto come ripiego, come alimento economico, la si mangiava per riempirsi e non per gustarla. Vi racconto una cosa divertente: un caro amico aveva preso la forchetta personale del padre, una di quelle vecchie forchette in alluminio, e ne aveva allargato le punte. In questo modo, quando si mangiava tutti insieme servendosi dal piatto comune, riusciva a prendere bocconi più grandi, senza passare per maleducato servendosi troppe volte. La forchetta diventava un’arma per raccogliere più cibo da mettere nel proprio piatto: a tavola si mettevano in atto delle vere e proprie strategie per mangiare di più!
Torniamo a te. Che tipo di pasta ami di più, da mangiare e da cucinare?
Non mi piacciono molto le paste che rilascino troppo amido, e diano quindi una cremosità eccessiva al piatto. Preferisco che ci sia un certo distacco tra la pasta e il condimento. Per il mio punto di vista di oggi, come cuoco cresciuto con il tempo e con l’esperienza, gli spaghetti nel piatto devono essere staccati l’uno dall’altro, devono avere una loro lucentezza… In alternativa, uso magari lo spaghetto spezzato nella minestra, tipo risottato. Per me resta comunque il concetto della pasta abbondante, non mi piace l’idea di mettere 4 o 5 fusilli nel piatto. Ecco perché, allora, invece di proporre un piatto di pasta nel menu preferisco un piatto di spaghetti a fine cena, come chiusura conviviale: qualcosa che non faccia parte del percorso gustativo, e non rientri nella valutazione del ristorante, ma che abbia una valenza diversa, di pura goduria, un po’ come nei film di Alberto Sordi. Insomma, lo spaghetto non vuole fare il fighetto a tavola, va mangiato e basta!
Ci sembra di capire che lo spaghetto sia il tuo formato preferito.
Dipende. Sicuramente spaghetti e candele sono quelli più legati alla memoria, i più diffusi tra le famiglie del Sud e legati a una ritualità tutta loro. Ma per me il formato della pasta ha anche un significato specifico legato alle occasioni, o a un ingrediente particolare che modella la pasta stessa. Per esempio, per la domenica o le occasioni di festa, per me c’è solo la pasta corta – una volta i maccheroni si mangiavano solo di domenica – o al massimo le tagliatelle. Non c’è niente di più sbagliato di uno spaghetto al ragù: finiresti per mangiare la pasta senza sugo! Se vedo uno spaghetto – o peggio, la minestra – a casa mia la domenica, mi innervosisco. Poi mi piacciono molto i cannelloni, la pasta all’uovo, i formati speciali… Da piccolo non amavo la pasta liscia, oggi invece la trovo molto elegante: prende il sugo che le serve, non deve essere per forza troppo rugosa. Trovo molto intrigante il fusillo, per esempio con il tonno fresco: è un formato che intrappola l’ingrediente, che si deve infilzare. Anche lo zito mi fa impazzire, ha la giusta dimensione, a differenza del pacchero che è impegnativo e stanca la mandibola. Sono attenzioni che un cuoco deve avere, quando pensa ai suoi piatti.
Sembra, insomma, che tu abbia studiato approfonditamente l’argomento.
Ho avuto la fortuna di conoscere e imparare molto dagli anziani pastai che lavoravano ancora a Licata e dai loro discendenti. Uno di loro mi ha anche insegnato a estrarre il glutine dalla farina, per capirne la qualità e la forza: ora ci sono strumenti e analisi, ma un tempo la farina andava lavorata in modo tale da estrarre il glutine per valutarne la tipologia. Un caro amico che oggi non c’è più, figlio di un grande capo-pastaio che poi divenne anche socio di uno dei principali pastifici di Licata, mi raccontava di come questa figura fosse altamente rispettata e tenuta in grande considerazione. Sono mestieri fondamentali, ma questi tipi di maestranze stanno scomparendo. L’essiccazione, in particolare, è un punto cruciale da cui dipende la tenuta della cottura, da lì dipende la qualità del prodotto. Il cuoco può fare dell’ottima pasta fresca, ma l’essiccazione è una vera e propria arte.
In Piemonte, invece, ho lavorato per un giorno in un pastificio. A quei tempi non ne capivo nulla, e mi pento di non aver approfondito. Però poi sono stato a Gragnano, in un antico pastificio che stendeva ancora la pasta all’esterno per farla essiccare. Questa parte romantica della pasta mi affascina tantissimo, ma ormai si tratta di un patrimonio che sta scomparendo a causa dei divieti della Comunità Europea.
Veniamo a un altro celebre piatto dove compare la pasta, anche se in maniera decisamente originale: il Cannolo di melanzana perlina in pasta croccante. È legato in qualche modo alla pasta fritta, grande piatto di recupero di cui parla nel suo libro?
No, il cannolo di melanzana nasce in realtà dalla memoria del timballo, con i suoi ingredienti ma in veste nuova. In questo caso, però, ho scelto i capelli d’angelo. Un altro formato che mi piace, e legato anche a un mio amico che vive in America: mi ha confidato che, al ristorante, ordina sempre i capelli d’angelo perché è l’unico tipo di pasta che non possono fare precotta! La pasta fritta, invece, è appunto un piatto a base degli avanzi del mezzogiorno o del giorno prima. La pasta avanzata era condita con uovo e formaggio e messa in padella con un filo d’olio, girandola come una frittata. Si otteneva una specie di tortilla di pasta che diventava la pietanza più gettonata, la cosa più buona che ci potesse essere. Scommetto che se oggi mettessi sul tavolo la pasta fritta, i commensali lascerebbero ciò che hanno nel piatto e mangerebbero quella: il richiamo alle origini è irresistibile!
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