Pizza e pinsa: qual è la differenza?
Pizza e pinsa, eterne rivali, eterne sorelle. Ma quali sono le differenze tra questi due prodotti? Ve lo spieghiamo qui.
“E pinsa pinsa, ecco che ti fanno la pizza“. Non ricordo con precisione a chi Gabriele Bonci, in una vecchia puntata di Pizza Hero, avesse chiarito questo concetto base. In effetti è così. Se c’è una cosa che accomuna pizza e pinsa è l’atto, fisico, di usare la punta delle dita, coi polpastrelli o con le nocche, per impastare la base che poi dovrà essere farcita. Per il resto, invece, le storie di pizza e pinsa procedono su strade parallele, con incroci e svincoli, ma soprattutto, con date diverse. Perché se è vero che a chi mangia pizza e pinsa possono sembrare di primo acchito la stessa cosa, in realtà stiamo parlando di due realtà molto distanti.
Un bignami sulla pizza
Come vi avevamo già raccontato qui, la pizza ha un’origine controversa. Prenderebbe intanto il nome da una storpiatura della parola pitta, una specie di disco di pasta di pane schiacciato utilizzato nei forni per saggiarne la temperatura prima di cuocere. E, solitamente, la sua nascita coincide con il prodotto della tradizione napoletana della fine del 1700. Anche se la ricetta vera e propria risalirebbe alla fine del ‘500, quando sempre in Campania le si abbina un condimento preciso – strutto, pepe, basilico – e vive la mastunicola. Il pomodoro arriva più tardi, dal 1830 gli impasti si pregiano di questo condimento, nasce verso la fine del XIX secolo la Margherita, dedicata alla sovrana di Savoia, arrivata abbastanza indenne fino a noi. La pizza di cui parliamo è tonda. E la pizza napoletana, da disciplinare, si fa con farina di grano tenero 00 o 0, con possibilità di aggiunta, in percentuale di una parte di 1.
E il compendio sulla pinsa
Vi avevamo resi edotti anche sulla pinsa, ma è bene ripetere, che giova sempre. Diciamo che possiamo tranquillamente considerarla un’antenata della pizza, visto che nasce già nell’antica Roma, quando contadini e pastori cercavano di accattivarsi la benevolenza degli dei con semplici offerte. Tra queste c’era anche questo impasto, ovale, preparato con farine povere – miglio, orzo, avena, farro – mescolate ad acqua, erbe aromatiche e sale, cotto su pietre piatte poste sui carboni. E raccontato persino da Virgilio, nell’Eneide, come una base utilizzata per poggiare diverse vivande. La pinsa che conosciamo oggi, però – e che più correttamente dovremmo chiamare pinsa romana – è un’invenzione recente. Risale al 2001, a quando l’intuizione di Corrado di Marco, fondatore dell’omonima azienda, ha creato un prodotto esclusivo e non imitabile, protetto da un marchio ufficiale. E preparato con un mix di farine – frumento, soia, riso, più pasta madre – abbinato a un alto grado di idratazione, al 75%.
Farina di riso, ma anche staglio, stesura e cottura
È proprio la farina di riso a fare la differenza nel processo di produzione della pinsa rispetto alla pizza. Parliamo in termini di preparazione classica, non delle variazioni consentite e sperimentate negli ultimi anni. La farina di riso, nella pinsa, ha il compito di fissare l’acqua presente nell’impasto durante la cottura. Diversa, inoltre, risulta la fase dello staglio, in gergo pallinatura, così come la stesura, che per la pinsa prevede solo pizzichi con i polpastrelli, per un risultato molto alveolato croccante fuori e morbido dentro. Mentre per la pizza (tonda) prevede un mix tra pizzicare e allargare. Una menzione merita anche la lievitazione: da sempre lunga per la pinsa (24-48 ore), allungata nel tempo dalla naturale evoluzione del settore per la pizza.