Claudio Amendola apre Frezza a Roma | Rece Rock
Siamo stati all’apertura di Frezza, il locale aperto in centro a Roma da Claudio Amendola. Ecco come è andata.
Lo ammetto, andare all’inaugurazione di Frezza – Cucina de Coccio, il nuovo locale dell’attore e regista Claudio Amendola, mi emoziona. Coi suoi film ci sono cresciuto (Vacanze di Natale e Vacanze in America li conosco a memoria, come pure Mery Per Sempre e tanti altri) ed invecchiato (coi più recenti Noi e la Giulia, Suburra e Come un gatto in tangenziale). Ho sempre avuto una particolare simpatia per lui perché recitava la parte del coatto buono o del torpigna (come venivamo apostrofati dai pariolini di Roma Nord noi del quadrante sud-est della città) e, naturalmente, anche per la sua mai celata fede calcistica romanista. Recentemente mi è persino capitato di partecipare come figurante al suo ultimo film, I Cassamortari, in cui sfoggio la stessa espressività recitativa della salma di Piero Pelù a cui sto rendendo omaggio. Lì ho potuto apprezzare la simpatia e la professionalità di Amendola, unite a uno stakanovismo ammirevole. Se metterà la stessa energia e passione anche in questa sua nuova creatura, allora il successo sarà garantito. Dopo questa sviolinata, avrete intuito quanto possa essere alto il rischio di diventare fazioso, un po’ come Emilio Fede quando parlava di Silvio Berlusconi durante il Tg4, ma farò del mio meglio per essere imparziale e smetterò, per un attimo, di essere buonista, proprio come insegnò papa Francesco quando schiaffeggiò la fan cinese a San Pietro.
Claudio Amendola non è nuovo al mondo della ristorazione: nel 1990 aprì il suo primo locale a Roma e, nel 2010, l’Osteria del Parco a Valmontone, lungo l’Autostrada del Sole, tutt’ora attiva. Ma, ovviamente, aprire un ristorante nella centralissima Via della Frezza, tra l’Ara Pacis, il Mausoleo di Augusto e Via del Corso, è una sfida di livello decisamente superiore. Quest’area, dopo anni di cantieri e frequentazioni poco raccomandabili (tra cui la mia), è stata finalmente riqualificata e, ad oggi, non si corre più il rischio di intavolare improbabili discussioni con il clochard di turno in un linguaggio simile a quello usato da Lino Banfi e Don Peppino davanti al Colosseo in Vieni avanti cretino. Mi presento al locale puntuale come una cambiale ed elegante come un manichino dei vecchi Magazzini allo Statuto. Le due sale del ristorante sono ampie (ci saranno una cinquantina di coperti), l’arredamento è semplice, curato e informale anche se le piastrelle bianche mi riportano alla mente un autolavaggio a mano bengalese. Il gentilissimo personale di sala mi offre prima uno spritz e poi numerosi calici di brut Sciamante. Praticamente, dopo 12 minuti netti, sono già brillo e ho l’espressione arguta di Jeffrey Lebowski. L’atmosfera cordiale e rilassata mi fa sentire a casa, peccato non aver portato con me la vestaglia di flanella e le pantofole foderate della De Fonseca.
Un disponibilissimo Claudio Amendola fa gli onori di casa e ci presenta il format del locale e il menu creato con la consulenza dello chef Davide Cianetti (già executive chef dei ristoranti Pierluigi e Dal Bolognese), in cui l’attore crede molto nonostante sia di fede calcistica avversa. Si, è della Lazio. Il menu raccoglie tutti i classici piatti della tradizione capitolina e non presenta particolari sorprese. Praticamente, sembra di leggere la classifica della Bundesliga o della Ligue 1 degli ultimi vent’anni: sai già che in testa ci troverai il Bayern o il PSG. Poco male, perché da Claudio Amendola non mi aspetto certamente un omaggio alla cucina valdostana o una proposta di cucina molecolare.
Con l’arrivo degli antipasti, prevalentemente fritti, intuisco che sarà una serata ad elevato rischio di coronaropatia trivasale fulminante. Addento con avidità il supplì classico procurandomi l’ormai consueta ustione di secondo grado al palato. Lo trovo un po’ asciutto e con il riso un pizzico scotto ma ha una panatura deliziosa e la mozzarella è talmente filante che sono dovuto arrivare a Via del Babuino per separarne le due metà. La mozzarella in carrozza non mi ha emozionato particolarmente mentre invece ho amato le polpette di bollito (ne ho mangiate fino a riempirmi come una Gumball Machine, il distributore di chewing gum a monete). Notevoli anche il filetto di baccalà, buono come quello di Gabriella in Febbre da Cavallo, e il gonfissimo fiore di zucca, praticamente un gavettone di mozzarella e acciuga. Menzione a parte meritano le bombe salate, ovvero un impasto lievitato, fritto e ripieno con coda alla vaccinara (fantastica) o con trippa alla romana (un po’ sbiadita, a dire il vero) con mentuccia e pecorino. Dopo aver mangiato questi sampietrini fritti, le successive bruschette cicoria e guanciale e le pizze romane basse e scrocchiarelle (rossa e margherita) sono equiparabili alle barrette dietetiche della Peso Forma.
Nonostante il pieno di antipasti e nonostante il sangue nelle arterie somigli ormai all’antigelo della Repsol, sono pronto ad approcciarmi ai piatti principali con la serenità e la sfacciataggine che solo la vicinanza dell’ospedale S. Giacomo può donare. La lista dei primi mi è familiare come la formazione della Roma Campione d’Italia del 2001: Tonnarelli cacio e pepe, rigatoni all’amatriciana, spaghetto fresco alla carbonara e linguine alla puttanesca. Dopo una breve attesa, arriva un coccetto, che normalmente userei come posacenere, con dentro dodici rigatoni all’amatriciana. Non male, anche se di solito ne mangio dodici solo per stabilire se la pasta sia cotta o meno prima di scolarla. Nessun problema, penso tra me e me, almeno rimarrò leggero e potrò godermi anche gli altri primi o magari i secondi serviti nelle caratteristiche terrecotte dalla Cucina de Coccio. Ma, evidentemente, sono io a essere di coccio e, come le proiezioni elettorali dell’Abacus, ho sbagliato miseramente i miei calcoli. La micro amatriciana è stata l’ultima portata della degustazione prima del dolce.
Sconfortato come quando scoprii che i Milli Vanilli cantavano in playback, mangio mestamente il dessert, immancabilmente fritto, accompagnato da una ciotola di crema pasticcera talmente buona che, se fossi stato da solo, l’avrei leccata selvaggiamente come uno stambecco lecca il salnitro sulle pareti della diga dell’Alta Valle Antrona. È stata una bella serata, eppure vado via con l’amaro in bocca come Renato Pozzetto quando ingoia il ragno in Ragazzo di Campagna. Avrei voluto assaggiare meno antipasti e più piatti principali ma, pazienza, ho una buona scusa per tornare a provarli. Sono certo che Frezza diventerà popolare da queste parti dove i ristoranti di cucina romana latitano e che attirerà anche clientela indigena, compreso qualche torpigna come me, in una zona frequentata quasi esclusivamente da turisti.