Pesto alla genovese: dal moretum alle trofie di Maria
Il pesto è una specialità che ormai si identifica con la città di Genova, ma qual è la sua storia? Ve lo raccontiamo noi di Agrodolce.
Zena, ossia Genova, fu una delle repubbliche marinare ed è una città colma di storia, marinai, camalli e pietre dure. Sempre in conflitto con Venezia, visse di commerci di tessuti, velluto e jeans, di noleggi di navi (il Genova) e soprattutto di banche. la repubblica marinara di genova, tra i tesori della rivale pisa, trovò i preziosi pinoli Si affaccia nell’alto Tirreno, su una piccola striscia di terra spinta a mare dalle montagne. Alle sue spalle le coltivazioni si sviluppavano su terrazzamenti e vi crescono bene sia gli ulivi, sia il basilico. Durante il Medioevo, mentre ospitava i Cavalieri Ospitaleti (poi di Malta), forniva i trasporti per la Terra santa. Genova conquistò buona parte della Sardegna, ebbe accordi con i saraceni e i Cavalieri, e persino con gli inglesi, a cui a pagamento prestò la propria bandiera per evitare gli attacchi dei pirati. Nel 1200 sconfisse la rivale repubblica di Pisa, impossessandosi dei suoi tesori: nel bottino c’erano anche i pinoli, una delle anime del pesto genovese. Questa specialità è una derivazione del moretum romano, un insieme di erbe, aglio e formaggi che veniva pestato con il mortaio e spalmato sul pane. Gli ingredienti prevedevano appunto erbe, pecorino fresco e stagionato, sale, olio di oliva, a volte aceto.
Lucio Giunio Moderato Columella, intorno al 20 d.C. (fonte: Bibliotheca Augustana Augsburg) descriveva così la ricetta del moretum: “Rimossa delicatamente la terra con le dita, tira fuori quattro agli con le spesse fibre, poi strappa le tenere chiome del sedano e la rigida ruta e il coriandolo tremante nell’esile aspetto. Dopo aver raccolto queste erbe, si mette a sedere presso l’allegro fuoco e ad alta voce dice alla serva di portargli il mortaio. Allora mette a nudo ciascuna delle teste dell’aglio dal corpo nodoso e le spoglia delle membrane esterne e, gettandole, sparge qua e là per terra queste parti inutilizzabili; bagna con acqua il bulbo integro nella parte verde e lo pone nel cavo cerchio della pietra. Vi sparge grani di sale, viene aggiunto formaggio indurito dal sale, vi pone le erbe prima nominate, dapprima con la destra frantuma col pestello gli agli profumati e a quel punto pesta gli altri ingredienti mescolando il tutto. Va la mano in cerchio, a poco a poco i singoli ingredienti perdono le loro forze, il colore da vario diventa unico, non completamente verde poiché le sostanze del latte inutilmente si oppongono e neppure bianco per il latte, perché esso viene cambiato da tante erbe. Spesso l’acre profumo colpisce le narici aperte dell’uomo e col volto rincagnato biasima il suo pranzo, spesso col dorso della mano deterge gli occhi lacrimanti e furibondo lancia rimproveri all’incolpevole fumo. La preparazione procede e il pestello non si muove più, come prima, saltellando ma più pesante in lenti cerchi. Dunque fa cadere gocce dell’oliva di Pallade, sopra versa gocce di poco aceto, di nuovo mescola la massa e la rivolge. Allora finalmente con due dita passa in giro l’intero mortaio e raccoglie tutta la massa prima sparsa perché sia chiaro l’aspetto del prodotto finito e il nome di Moretum“.
Da questo al pesto genovese il passo è breve: un condimento a base di basilico (che arrivando dall’India i romani non avevano), in particolare il basilico di Pra’, a cui si aggiunge aglio, pecorino e olio extravergine di oliva. l'antica ricetta prevede che il pesto sia preparato con un mortaio di marmo La prima ricetta di pesto dell’epoca moderna si ha ne La cuciniera genovese. La vera maniera di cucinare alla genovese (Giobatta Ratto, Genova, 1863). La ricetta originaria prevede il mortaio di marmo con il pestello in legno: se usate frullatore o minipiner, mettete le lame in congelatore almeno per mezz’ora o aggiungete cubetti di ghiaccio, evitando così l’ossidazione. Nel mortaio unite gli spicchi d’aglio, i pinoli, il sale marino grosso, le foglie di basilico, e procedete quindi a pestare con un movimento rotatorio. Quando il basilico stilla un liquido verde, aggiungete i formaggi grattugiati e amalgamate il tutto; soltanto alla fine aggiungete l’olio di oliva. Il pesto è una crema densa di colore verde chiaro i cui diversi ingredienti devono essere amalgamati senza prevalenze. Prima di utilizzarlo come condimento per la pastasciutta, il pesto va allungato con l’acqua di cottura della pasta sino a ottenere una consistenza non troppo liquida. Si usa per condire la pasta, gli gnocchi di patate, il minestrone genovese, le lasagne (o testaroli, panigacci); si usa anche sul pesce e sulle farinate. Io l’ho mangiato anche su prosciutto e melone e non era male.
Ho assaggiato una specialità particolare alla trattoria Da Maria (via Testadoro, 14/r – Genova), un locale storico nei pressi di Palazzo Ducale, sopra i carrugi, strutturato su due piani dove si mangia su tovaglie di carta, con una sola forchetta, e il vino è alla mescita. Qui si mangia con poco ed è più facile trovare tute da lavoro che signore in completi eleganti; è un posto pieno di confusione, popolare, schietto e semplice, con un menu a rotazione e spiccio; un luogo a suo modo ospitale. Il dialogo tra me e la cameriera è andato più o meno così:
Signorina posso mangiare il minestrone?
“No, è finito“.
Il mitico polpettone, invece?
“Quello buono buonissimo?”
Sì, quello genovese.
“Non c’è, finito“.
E il pesto?
“Glielo faccio fare con le patate? O da turista?”
Sono rimasto basito e ho risposto che preferivo la versione con le patate. La ricetta di Maria, popolare ed economica, prevede infatti fagiolini e patate messi a bollire con le trofie. Il risultato è uno spettacolo, anzi, come dice sempre a cantilena la cameriera (la nipote di Maria), è “buono buonissimo“.
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